Pubblicità: via il veto ai legali 

da Il Sole 24 ore del 19.10.99

ROMA — È caduto, per gli avvocati, il divieto di fare, in qualsiasi forma, pubblicità. Ora ai legali è consentito dare informazioni sulla propria attività, non contravvenendo comunque ai princìpi e agli obblighi su cui si fonda la professione forense, cioè «correttezza e verità» e «riservatezza e segretezza».

Si tratta di un’apertura "prudente", che arriva dopo un dibattito approfondito e non scontato, quanto agli esiti, all’interno della categoria. Per l’informazione a terzi restano esclusi veicoli generalisti risvolti al grande pubblico, come giornali e tv, anche se la comunicazione potrà avvalersi della telematica. Oltre a Internet si potranno utilizzare opuscoli, carta da lettera, rubriche professionali e telefoniche, repertori anche a carattere internazionale.

La fine del «divieto di pubblicità», come recita la rubrica ormai superata dell’articolo 17 del Codice deontologico del 1997, è stata sancita dalla riunione del Consiglio nazionale che si è tenuta sabato a Roma.

La nuova versione delle regole etiche — alla cui revisione ha lavorato una commissione presieduta dal vicepresidente del Consiglio nazionale, Remo Danovi — non parla mai di pubblicità, bensì di «informazione». Si tratta di una scelta non casuale, visto che il messaggio pubblicitario — anche ai primi di ottobre, durante il congresso nazionale dell’Oua, l’Organismo unitario dell’avvocatura — è stato bollato come uno strumento adatto alle attività "commerciali" ma non a quelle professionali. A queste ultime, infatti, il Codice civile attribuisce uno "statuto" particolare, con l’obbligazione di mezzi e non di risultato, la personalità della prestazione e la responsabilità del professionista nei confronti dell’utente. E da parte dell’avvocatura rimane in primo piano la necessità di non svilire la professione, rifiutando ogni commistione con logiche mercantilistiche.

In ogni caso, il Consiglio nazionale ha consentito agli avvocati di dare «informazioni sull’...attività professionale»: una definizione che sicuramente permette una gamma di possibilità più ampia rispetto all’indicazione — sulla carta da lettera o sui repertori — dei «propri particolari rami di attività».

Per esempio, notizie circa «l’organizzazione dell’ufficio e sull’attività professionale» potranno essere date non solo agli assistiti e ai colleghi. Rimane off-limits la pubblicità comparativa o quella che si fonda sul prezzo.

Il Consiglio nazionale ha preso atto anche della progressiva "internazionalizzazione" della professione. Gli avvocati italiani che vanno all’estero non possono essere penalizzati rispetto ai colleghi del Paese ospite. Da qui la decisione di modificare l’articolo 4 del Codice deontologico, prevedendo per l’avvocato l’obbligo di rispettare la legge etica del Paese di stabilimento e non anche quella italiana. Questo per non provocare un handicap competitivo ai professionisti italiani, i cui colleghi oltrefrontiera sono soggetti a una deontologia meno rigida, come in Gran Bretagna sulla pubblicità. Gli avvocati stranieri che esercitano la professione nel nostro Paese, quando questa sia consentita, devono rispettare le regole deontologiche italiane. La previsione è stata anche messa nero su bianco nella delega contenuta nel Ddl sulla "comunitaria" per il recepimento della direttiva avvocati, la 98/5.

La nuova versione del Codice deontologico approvata sabato modifica anche l’articolo 14 sul «dovere di verità». In precedenza era stabilito che in giudizio «l’avvocato è tenuto a non utilizzare intenzionalmente atti o documenti falsi». Una formulazione netta che poteva, per assurdo, arrivare a impedire ai legali di difendersi da argomenti falsi. Per questo, sotto la spinta dei penalisti, l’articolo ora prevede che «l’avvocato non può introdurre intenzionalmente nel processo prove false. In particolare, il difensore non può assumere a verbale né introdurre dichiarazioni di persone informate sui fatti che sappia essere fase». 

Maria Carla De Cesari