Sulle professioni non «vincoli» ma tutele per i cittadini 

da Il Sole 24 ore del 19.10.99

L’intervento del presidente dell’Antitrust, Giuseppe Tesauro, apparso sul Sole-24 Ore del 14 ottobre, mi porta a replicare con questa lettera aperta. Chi si impegna disperatamente a cercare di convincere gli stessi professionisti che bisogna promuovere un riordino delle libere professioni in chiave più moderna, per combattere la calata dei professionisti comunitari, o lo fa per scarsa conoscenza delle realtà o lo fa obbedendo alle forti pressioni di chi vorrebbe appropriarsi commercialmente di ogni forma di prestazione professionale (operazioni di trust). Cercherò di spiegare in sintesi che le osservazioni sollevate sono esclusivamente pretestuose, soprattutto se riferite alla professione che svolgo e quindi meglio conosco.

Non vi è nessun vincolo, nella nostra attività professionale, che precluda l’apertura alla concorrenza e non m’importerebbe affatto di essere considerato impresa ai fini comunitari e della concorrenza, se questo non fosse un colossale cavallo di Troia per "commercializzare" le attività professionali ai fini di cui sopra.

L’accesso alla professione è il momento fondamentale in cui si tutelano gli interessi del cittadino. Un consulente del lavoro impreparato può provocare danni, non solo economici, ma anche sociali, assai ingenti e rilevabili solo a distanza di tempo da parte di un’utenza normalmente del tutto profana. Si asserisce che la selezione vera la fa il mercato. Può essere, ma spesso a danno irreparabilmente prodotto.

Un accesso facile alla professione non favorisce, ma elimina, lo sbocco lavorativo professionale ai giovani. Nessuno spenderebbe anni di studio per accedere a una professione che non abbia un minimo di tutela rispetto a una concorrenza costituita da faccendieri "mordi e fuggi" (che già esistono fra gli abusivi più o meno tollerati).

La formazione permanente e la deontologia sono già attualmente compiti brillantemente ottemperati dagli Ordini. D’altro canto, dopo un severo accesso alla professione, il mercato potrà fare la selezione fra chi si aggiorna e chi no.

Quanto alle tariffe, l’articolo 36 della Costituzione, secondo cui il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa, dovrebbe essere riferito ai lavoratori in generale, siano essi autonomi o subordinati. L’articolo 21 della tariffa oggi in vigore per Consulenti del lavoro prevede che l’onorario minimo, per ogni ora di prestazione, sia «di lire 18.000». Sono davvero un grosso problema, questi minimi, ma per la sopravvivenza, non per la concorrenza. Non credo inoltre che l’Autorità garante censuri anche l’esistenza dei minimi di trattamento economico previsti dai contratti collettivi di lavoro e da quelli erga omnes.

Il divieto di pubblicità impedisce indubbiamente l’accentramento, quindi i monopoli o trust. Strano che ciò preoccupi l’autorità Antitrust, ma non importa. Parliamone! Allorché tutti i professionisti si faranno pubblicità, si produrranno costi ulteriori che sconterà la clientela.

Il desiderio smodato di vedere le attività professionali gestite in forma societaria, anche di capitali, completa gli indizi circa la volontà di assoggettare le libere professioni al capitale per la commercializzazione delle prestazioni intellettuali.

RICCARDO TRAVERS

(PRESIDENTE ORDINE
 

CONSULENTI DEL LAVORO DI TORINO)

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Nell’articolo del presidente Antitrust, Giuseppe Tesauro, apparso sul Sole-24 Ore del 14 ottobre, c’è a mio parere un errore di fondo: il contenuto della prestazione professionale ha una componente assolutamente non percepibile a prima vista da chi si avvale dei servizi professionali e ciò implica che non è possibile per la libera concorrenza portare a un equilibrio tra domanda e offerta del prodotto basandosi sulla variazione dei prezzi. In assenza di precise regolamentazioni si assiste invece attualmente a fenomeni di eccesso di offerta con prezzi insufficienti a coprire i reali costi di fornitura di un servizio qualitativamente adeguato. In sostanza i costi dello studio, dell’aggiornamento, dell’informatizzazione eccetera incorporati in un prodotto professionale qualitativamente adeguato non vengono riconosciuti dal cliente, il quale fa invece spesso riferimento al prezzo di un prodotto scadente — o meno qualitativamente valido — venduto da altri operatori quale prodotto identico a prezzi irragionevolmente bassi.

In assenza di una regolamentazione pubblica precisa, l’asimmetria informativa porterebbe quindi all’espulsione dal mercato degli operatori che offrono un prodotto qualitativamente elevato e successivamente all’autodistruzione per eccesso di offerta degli operatori (attualmente favoriti in ogni modo dalla normativa e dalla prassi) che attualmente stanno devastando il mercato. A quel punto si affaccerebbero sulla scena i veri beneficiari di una simile "concorrenza", ossia operatori su larga scala, finanziariamente molto forti che potrebbero imporre essi stessi i prezzi per i propri servizi (seppur all’interno di una concorrenza oligopolistica) a una clientela contrattualmente più debole (quale le Pmi italiane).

L’attuale normativa impone delle tariffe per evitare questi fenomeni di squilibri di prezzo e vieta la pubblicità dei servizi professionali (i cui contenuti non sarebbero riscontrabili obiettivamente nell’immediato) per evitare proprio queste confusioni e questi cannibalismi. Le norme nazionali distinguono inoltre tra professionisti e imprese proprio perché i prodotti delle due attività sono così radicalmente diversi. Nel gergo giuridico si parla di strumenti di «tutela della fede pubblica», espressione forse un po’ démodé ma con precisi significati anche economici.

CARLO LOMBARDI

(VERONA)