Se
ritorna lo spirito costituente
da La Repubblica del 20.6.98
di SABINO CASSESE
“Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare, cambiare la
sua Costituzione; una generazione non può assoggettare alle sue
leggi le generazioni future”: dispone così l’articolo 28 della dichiarazione
francese dei diritti dell’uomo, del 1792. L’opinione pubblica italiana
ritiene da almeno un quindicennio necessario cambiare la propria Costituzione.
Ma, nonostante i tre tentativi compiuti, la classe politica non riesce
a realizzare tale cambiamento. Siamo a un punto morto, ed è, quindi,
utile passare in rassegna gli eventi, esaminando perché è
necessaria una riforma costituzionale e perché essa è tanto
difficile.
La necessità della riforma costituzionale è dettata da
almeno tre motivi, di peso diverso. Il primo e più antico è
quello di stabilizzare il governo: nessun paese può sopravvivere
con governi che cambiano ogni nove mesi.
A questo si è aggiunto, nel 1993, un secondo motivo, che non
è stato, però, messo a fuoco. Un sistema elettorale maggioritario,
come quello introdotto nel 1993, e l’auspicato rafforzamento dell’esecutivo,
conferiscono al vertice politico poteri intollerabili per un paese che
ha sempre temuto il bonapartismo. Di qui la necessità di sostituire
l’assetto statale piramidale, fondato sulla gerarchia legislativo-esecutivo-giudiziario,
in un assetto policentrico, con poteri locali più robusti, un chiaro
statuto dell’opposizione, contropoteri capaci di temperare la maggioranza,
eccetera. L’errore principale della Bicamerale è stato di non aver
compreso a pieno questa ultima esigenza (salvo che per il cosiddetto federalismo).
PER CUI, a mano a mano che si disegnava un rafforzamento dell’esecutivo,
le forze politiche, impaurite, riscoprivano la proporzionale, i poteri
dell’assemblea e i governi condizionati. Si aggiunga che, in un sistema
bipolare, è sempre il centro che decide se debba vincere la destra
o la sinistra, e si capirà perché la Bicamerale è
finita mentre si registrava un generale riposizionamento al centro.
La necessità di riformare la Costituzione è, in terzo
luogo, dettata, paradossalmente, dal fatto che, dopo tanto parlare di stabilità
del governo e di regime semi-presidenziale, si è già affermata
una prassi in questo senso. Due elezioni hanno portato al governo “premier”
scelti dall’elettorato. Abbiamo un governo che dura da due anni e conta
su altri tre. Con deleghe amplissime, il potere legislativo è stato,
in larga misura, trasferito all’esecutivo. Il presidente del Consiglio
dei ministri si comporta già da primo ministro. Il presidente della
Repubblica non manca di far sentire settimanalmente la sua voce, interviene
nelle procedure di nomina con un peso prima sconosciuto, esercita un discreto
controllo sul governo. Ma questi successi presentano un’estrema fragilità.
Per cui o si dà ad essi una sicura base costituzionale, oppure bisogna
che i maggiori poteri dello Stato ritornino nei ranghi (per intenderci
con un esempio, che il presidente della Repubblica, quando parla in pubblico,
legga discorsi sottoposti previamente al vaglio del governo o da questo
scritti, come si faceva nei primi anni della Repubblica ed è regola
nei paesi dove il presidente è organo di garanzia). Ecco, dunque,
un terzo buon motivo per riformare la Costituzione: l’ instabilità
dei cambiamenti finora compiuti. Ma ecco un altro paradosso: i successi
finora ottenuti possono anche suggerire di non cambiare la Costituzione,
visto che quella vecchia si è già così ben adattata
a un rafforzamento dell’esecutivo e del presidente.
Se la riforma costituzionale è tre volte necessaria, essa è,
però, resa difficile da tre circostanze. La prima è stata
a lungo considerata: la riforma italiana non è imposta da una crisi
acuta, ma da una lunga malattia. È, quindi, un’operazione che viene
fatta a freddo, non sotto la spinta della caduta di un regime o di una
crisi, come quella algerina in Francia.
La seconda difficoltà deriva dall’identità del soggetto
riformatore e di quello riformato. Questa osservazione è stata svolta,
nelle settimane scorse, da Pasquale Pasquino ad un seminario organizzato
dall’Istituto italiano di cultura di Parigi. In effetti, si chiede
al Parlamento di riformare se stesso, privandosi dei molti poteri con i
quali condiziona i governi e stabilendo un legame diretto tra popolo e
governo, che aggira, così, il Parlamento stesso.
La terza difficoltà è stata notata dal costituzionalista
francese Olivier Duhamel, al seminario prima citato: questi ha osservato
che obiettivo dei costituenti è quello di raggiungere un consenso
maggioranza-opposizione, proprio mentre il contesto si bipolarizza e aumentano
le tensioni tra i due poli. Si può ora prevedere una flessione
del processo di riforma o, peggio, il rischio che esso riprenda, ma in
modo incoerente. Infatti, è difficile che le forze politiche
si preoccupino dei loro interessi di lungo periodo senza curarsi di quelli
di breve periodo. E questi sono dettati dalle propensioni del corpo elettorale,
oggi diviso tra un 40 per cento favorevole a un polo e un 40 favorevole
all’altro, oltre a un 10 per cento favorevole alla Lega e un numero di
votanti di eguale misura, favorevole a Rifondazione comunista. Per cui
i due poli dovranno cercare i voti della vittoria nel 35 per cento dell’
elettorato, quello che non dichiara ora le proprie intenzioni di voto.
Ciò che li spinge a non prendere posizione sulle scelte costituzionali,
a preferire lo s tato attuale, pur con tutti i suoi difetti e le sue ambiguità.
Ma si può anche sperare che la classe politica provi a mettere
insieme le ragioni della necessità della riforma con quelle della
difficoltà di riformare, trovando la formula non remota per uscire
dall’attuale impasse, anche a costo di dover ritornare sui propri passi
e di fare qualche correzione, come si fece in Francia nel decennio successivo
alla Costituzione del 1958. Come ha giustamente detto il presidente
del Senato nell’intervista a Giovanni Valentini sulla Repubblica di ieri,
occorre far rinascere lo spirito costituente, concentrandosi sulle questioni
più importanti, quella del presidente della Repubblica e quella
del governo.
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