Sono sette i nodi da sciogliere 

da Il Sole 24 ore del 21.9.98

di Vincenzo Zeno-Zencovich
Affermare che un sistema giudiziario inefficiente penalizza le imprese (e tutta la collettività) è un’ovvietà sulla quale non varrebbe nemmeno la pena di soffermarsi. Il problema è quanto grande è il peso di questa inefficienza in termini di risorse finanziarie e umane sprecate o dirottate: occorrerebbero studi che evidenzino per ciascun settore e tipo di impresa il costo medio e i giorni/uomo sottratti alla loro normale destinazione e poi cercare di comprendere in che misura tali perdite sono comprimibili attraverso un sistema giudiziario più efficiente e quanto invece rientra nella fisiologica gestione di una impresa.
In mancanza di essi ci si deve limitare a un inventario di problematiche che fanno parte della vita quotidiana di ogni impresa e dove, sicuramente, sono possibili — se solo ci si volesse impegnare — significativi miglioramenti.
L’omologazione degli statuti. Si tratta di un’attività di sicuro rilievo sia per l’impresa che per i soci e per i terzi e in quanto tale non appare affatto auspicabile una soppressione di tali funzioni storicamente attribuite alla magistratura. C’è tuttavia da chiedersi se non sia possibile in qualche modo facilitare tali controlli, che nelle grandi sedi giudiziarie portano via molto tempo soprattutto ai non molti magistrati che sono specializzati nella materia. Ad esempio attraverso la previsione di statuti-tipo per le forme più diffuse di società.
Il registro delle imprese. Anche qui mantenere il controllo giudiziario appare una necessità, ma si è ancora lontani da un sistema, anche informatizzato, che soddisfi le esigenze di trasparenza e di rapidità che sono alla base della sua recente istituzione dopo una attesa più che cinquantennale.
Le procedure monitorie. Per quanto tutto il codice di procedura civile stia privilegiando forme anticipate di tutela, l’attuale meccanismo dei decreti ingiuntivi appare largamente insoddisfacente. Laddove il titolo non consenta l’immediata esecutività del decreto, il convergente meccanismo di opposizione, spesso dilatoria, e fissazione assai lontana della prima udienza fa sì che tra richiesta ed esecutività possa passare anche un anno. Se a questo si aggiunge la improvvisa riduzione del tasso d’interesse legale al 5%, ci si avvede che tutto il sistema incoraggia l’inadempimento.
Le procedure esecutive. Se poi, alla fine, il creditore trova ancora qualcosa su cui soddisfarsi, il procedimento di esecuzione mobiliare (non parliamo di quello immobiliare!), al di là delle croniche lentezze della macchina giudiziaria, viene zavorrato dal ruolo, opaco per non dire ambiguo, svolto dagli istituti incaricati della vendita agli incanti e sui quali si spera si vorrà, quanto prima, fare chiarezza.
Le controversie di lavoro. Si entra qui in un terreno minato. Si è già evidenziato (si veda «Il Sole-24 Ore» del 17 settembre) il fallimento della misura introdotta quest’anno per deflazionare il contenzioso, imponendo il tentativo di conciliazione obbligatorio davanti all’Ufficio provinciale del lavoro. La constatazione — facilmente prevedibile — dovrebbe far comprendere che in una società evoluta non è pensabile che ogni controversia, anche quelle bagatellari (e sono un numero enorme), vengano per forza devolute al giudice ordinario.
Per un verso il legislatore deve spezzare il tabù che vieta l’arbitrato nei rapporti di lavoro subordinato. Per altro verso i sindacati dei lavoratori e le associazioni degli imprenditori devono (e certo non manca loro la maturità per farlo) costituire e far funzionare commissioni di conciliazione.  Converrebbe a tutti, non solo alle singole parti, ma soprattutto alle categorie che non vedrebbero pezzi interi della contrattazione spazzati via dalle decisioni più o meno avvedute di qualche pretore del lavoro.  La crisi dell’impresa. Oggi le procedure fallimentari sono per gli imprenditori disonesti quello che le amnistie sono per i delinquenti abituali. E il male non si arresta al fallito ma coinvolge spesso giudici, curatori e legali. L’interesse dei creditori è, il più delle volte, messo in secondo piano; e questo tanto più se il credito — come spesso quello per forniture o prestazione di servizi — non è assistito da alcun privilegio.  I costi. Le imprese — come del resto tutti i cittadini — pagano per i servizi giudiziari attraverso le tasse. Ma li pagano anche attraverso le infinite esazioni di marche, diritti, ciceroni e quant’altro. Qui il dato assoluto ci fa toccare con mano la sproporzione fra quanto, direttamente e indirettamente, viene pagato e il servizio reso. Se si dovesse cominciare da una piccola riforma, sicuramente potremmo dire che l’Italia sarebbe un paese più civile senza la quotidiana vessazione della marca da bollo.