«Tre falsi pentiti pilotati dalle cosche in accordo con magistrati»

da Il Corriere della sera del 22.1.99

DAL NOSTRO INVIATO 
MESSINA - L’operazione l’hanno chiamata «Witness», come il programma di protezione pentiti.  Quasi a voler sottolineare le distorsioni e i rischi di un cattivo uso di quest’ottimo strumento nella lotta alla mafia. E nel «verminaio» di Messina ce n’erano alcuni pilotati dalla mafia in combutta con imprenditori e magistrati per favorire le cosche che contavano di più. Ecco la verità agghiacciante offerta dal blitz con cui ieri mattina sono stati acciuffati gli ambasciatori palermitani di Cosa Nostra, i presunti burattinai di Luigi Sparacio, il superpentito da luglio in carcere, ma fino ad allora riverito e coccolato, con la restituzione di un patrimonio da venti miliardi e con la scorta per scorrazzare a bordo della sua Ferrari. 
Ma per essere certi che così sia stato, hanno dovuto vuotare il sacco altri due falsi pentiti, Giovanni Vitale e Mario Marchese, adesso pronti a giurare sulla loro redenzione e sull’impegno di non tornare a mentire, a tradire lo Stato. La scandalosa Messina offre anche queste ultime contorte immagini di sé, mentre i nuovi protagonisti del palazzo di giustizia, a cominciare dal neoprocuratore della Repubblica Luigi Croce e dal delegato di Vigna, il sostituto della Dna Carmelo Petralia, ritengono di avere scardinato il meccanismo incastrando cinque personaggi. Si tratta di cinque «fermi». E il gip dovrà valutare presto le posizioni. Spicca comunque fra le altre la figura di Michelangelo Alfano, 55 anni, palermitano con roccaforte a Bagheria, condannato per associazione mafiosa al primo maxiprocesso, da tempo trasferitosi nella città dello Stretto, ufficialmente imprenditore, ex presidente del Messina calcio. Accanto a lui Santo Sfamemi, 70 anni, patriarca accusato del tentato omicidio di un cronista. 
Per alcuni di questi ultimi si mette male. E per alcuni indaga già da mesi la Procura di Catania.  L’accusa di Croce e Petralia, lanciata anche contro gli altri tre fermati Nicola Urso, Andrea Pellegrino e Francesco Trinchera, parla di «un tavolo comune tra istituzioni ed antistato», di «una pericolosa contiguità tra personaggi radicatamente inseriti in strutture criminali ed uomini delle istituzioni», dei rapporti tra Alfano e «un magistrato locale», tra Sfamemi ed «altri magistrati». Ecco l’intreccio sul quale ruoterebbe «il forte livello di compromissione che per molti anni ha offuscato l’immagine della giustizia messinese». Ci sono molti omissis. Ma fra gli indagati di Catania, dopo l’archiviazione disposta per il procuratore di Reggio Calabria, Antonio Catanese, tre magistrati restano col fiato in gola, a cominciare dal sostituto di Vigna per anni a Messina, Giovanni Lembo. 
                        F. C.,