‘Accordi tra boss e giudici’: 5 arresti 

da Il Giornale di Sicilia del 22.1.99

Dal nostro inviato MESSINA. La città degli intrecci perversi e degli accordi affaristici deviati è una pentola in ebollizione, colma di verità pesanti e imbarazzanti pronte a schizzare fuori e a provocare un terremoto. Perché qui, dopo le inchieste sul palazzo di giustizia e sull’università, dopo le gravi denunce dei commissari dell’Antimafia, adesso è saltata fuori una storia che getta ombre pesanti su una parte della magistratura e sui suoi metodi, sulla gestione dei collaboranti e su affari sospetti all’ombra di Cosa
nostra. A Messina, dal ‘90 a oggi, mafiosi, pentiti e giudici si sarebbero seduti allo stesso tavolo per scambiarsi favori e studiare un piano destabilizzante, avrebbero stretto alleanze per gestire il potere. La radiografia impietosa della città affacciata sullo Stretto l’hanno fatta il nuovo procuratore Luigi Croce, arrivato a settembre da Palermo, e il sostituto della Dna Carmelo Petralia, autori di un’inchiesta che ieri è sfociata in cinque arresti e nella quale sono finiti anche i nomi di quattro magistrati.
Come quello del sostituto della Dna Giovanni Lembo, sino a non molto tempo fa applicato a Messina, sul quale stanno indagando anche i magistrati di Catania, alle prese con la ricostruzione della collaborazione con l’ex boss Luigi Sparacio, al quale è stato revocato il programma di protezione per via della sua spegiudicata condotta. E proprio Sparacio è uno dei personaggi chiave della nuova indagine: si sarebbe adoperato per far ritrattare i collaboratori, per salvare mafiosi e rappresentanti delle istituzioni. Così, ieri mattina, durante un’operazione condotta da squadra mobile e carabinieri, sono finiti in manette l’ex presidente della squadra di calcio Acr Messina, Michelangelo Alfano di 58 anni, orginario di Bagheria, ritenuto un ‘uomo d’onore’, Santo Sfamemi di 70 anni, considerato il capomafia di Villafranca Tirrena, Nicola Urso di 53, Francesco Trinchera di 41 e Andrea Pellegrino di 48. I primi due sono considerati i capi dell’organizzazione, gli altri tre si sarebbero dati da fare per tenere i i contatti e dare una mano ai boss. Tutti e cinque sono in stato di fermo con l’accusa di associazione mafiosa, di aver compiuto omicidi e gestito estorsioni, usura e attività commerciali. I provvedimenti adesso passeranno al vaglio
del gip, che dovrebbe pronunciarsi entro domani. A dare una mano agli inquirenti, oltre alle intercettazioni, sono stati diversi collaboratori di giustizia, che hanno raccontanto di pranzi in ristoranti del Nord, colloqui in casa di Sparacio, minacce, offerte di danaro e manovre per tacere la verità. Gli ‘ex picciotti’ Mario Marchese e Giovanni Vitale, ascoltati non più tardi di tre settimane fa, hanno parlato di incontri con Luigi Sparacio e con altri uomini per evitare che facessero il nome di Alfano, di notizie riservate uscite dal palazzo di giustizia, di disegni per fornire false informazioni ai pm. Marchese ha affermato con stupore che i suoi ex affiliati sono andati a minacciare mogli e figli sbattendogli in faccia i verbali di interrogatorio. E si è spiegato la faccenda così: ‘Un canale potrebbe essere Alfano, in quanto amico di Sfamemi, quest’ultimo notoriamente legato a molti giudici.
Un giorno Urso mi disse che per l’ergastolo non c’erano problemi, perchè aveva parlato con il dottor. ...(omissis)... il quale aveva promesso misure alternative all’arresto’. Di rapporti con giudici e rappresentanti delle istituzioni i collaboratori hanno parlato a lungo, tracciando un profilo a tinte fosche degli indagati. Tanto che, alla fine, i magistrati hanno scritto nel loro atto d’accusa: ‘Alfano, uomo d’onore della famiglia di Bagheria e anello di congiunzione con varie realtà del mondo imprenditoriale,
e Sfamemi, legato da rapporti di solidarietà con i boss palermitani e con magistrati, medici e imprenditori operanti a Messina, influendo sistematicamente sull’attività giuiziaria con minacce, dazioni di danaro e dichiarazioni orientate di collaboranti, hanno ottenuto aggiustamenti di processi e inciso sull’efficacia dell’azione repressiva dello Stato. Le dichiarazioni dei collaboranti dipingono un fosco scenario nel quale si muovono magistrati, appartenenti alla polizia giudiziaria, persone operanti nel mondo giudiziario e altri soggetti legati da rapporti di amicizia, cointeressenza e contiguità’. Un quadro profondamente allarmante sul quale ha detto qualcosa anche il collaborante Guido La Torre, che il 17 novembre scorso ha fatto i nomi di tre magistrati: l’ex giudice istruttore Giuseppe Recupero, il presidente di una sezione di Corte d’appello, Marcello Mondello, che in passato ha svolto le funzioni di gip, e il giudice in pensione Giovanni Serraino: ‘Sfamemi era uno che risolveva tutti i problemi, soprattutto quelli giudiziari, essendo in stretti rapporti con molti giudici come Mondello, Recupero ... (omissis)... e Serraino. Ho visto personalmente il dottor Recupero nella stalla di Sfamemi; io stesso sono stato beneficiario di aggiustamenti di processi procurati dallo Sfamemi, che aveva entrature anche nell’ambiente medico, tramite i tre magistrati predetti’. Dichiarazioni che La Torre aveva già fatto ai giudici di Reggio Calabria, che, a quanto pare, hanno chiuso le inchieste sui tre con l’archiviazione. Indagini, invece, sono in corso sul sostituto Giovanni Lembo, che, secondo l’accusa, avrebbe avuto a che fare con Alfano in un intricato scambio di favori. ‘Alfano ha avuto legami “istituzionali” con un giudice che ha svolto per lungo tempo il ruolo di pm a Messina - sostengono gli inquirenti - Assieme a Sfamemi, plasticamente rappresenta il momento di contatto tra due mondi, quello che consente che Stato e antistato si incontrino a un “tavolo comune”, spesso non solo simbolico’. Virgilio Fagone -