La toga gettata per una vite da 10 miliardi

da Il Corriere della sera del 22.5.99

Tre viti d'acciaio autofilettanti di centimetri 5 l'una: valore 30 miliardi. A scoprire in magazzino quella preziosa ferramenta, il «capitano Bollo Tondo», indimenticabile responsabile del deposito nel film «La grande guerra» («Calzini? Ci vuole il bollo tondo! Il bollo tondo!»), avrebbe fatto un salto sulla sedia. Figuratevi quello che ha fatto Girolamo Caianiello, autore della sbalorditiva scoperta nella veste di massimo responsabile del settore entrate della Corte dei Conti: «Per carità, mica c'era dolo. Solo un errore. Di nove zeri. Più che sufficienti, però, per sollevare un dubbio: si può prendere sul serio un rendiconto che valuta una vite 10 miliardi?». 
Si trattava, per il magistrato, del primo tentativo di mettere il naso così, a casaccio, dove capita capita, nei conti dei magazzini statali. Un mondo che per i soli depositi militari vede giacenze per oltre 60 mila miliardi, esattamente pari al salasso della manovra decisa dal governo Prodi per entrare in Europa. Primo e ultimo: «Non ho più avuto il tempo di occuparmene. Come mai l'ho avuto per dare un'occhiata, ad esempio, al comparto dei beni museali. Mai aperto un fascicolo, in sette anni». Neanche uno? «Neanche uno». 
Per questo, stanco di rovinarsi il fegato, ha deciso di andarsene. E di dare le dimissioni «ir-re-vo-ca-bi-li» da quella Corte dei Conti nella quale aveva lavorato per 39 anni. Gli amici, che sanno quant'è costato un gesto così «estremistico» a un borghese come lui, con baffetti e occhialetti e gilè istituzionalmente lisi, erede d'una dinastia di giuristi napoletani e fratello di quell'Enzo già presidente della Corte Costituzionale e ministro della Giustizia nel governo di Lamberto Dini, gli hanno fatto come regalo d'addio il cd «Arte della fuga» di Bach. Fuga, si fa per dire. 
Quello che fino a poco fa era il capo dell'«Ufficio controllo mediante vigilanza sulla gestione delle entrate e dei magazzini dello Stato» (un nome che è già uno sperpero), se n'è venuto via sbattendo la porta con violenza tale da far cascare i calcinacci: «Basta! Bisogna avere il coraggio di dirlo: in queste condizioni la Corte dei Conti, che pure costa ai contribuenti oltre un miliardo al giorno, non ha la minima possibilità, ammesso che ne abbia la volontà, di combattere sul serio l'evasione fiscale». 
I numeri non lasciano dubbi. I nostri magistrati ordinari sono 8 mila, quelli amministrativi (Tar e Consiglio di Stato) 400, quelli contabili 600. Ma a sorvegliare sulla gestione di tutte le entrate (dall'Irpef all'Ilor, dall'Iva all'Irpeg, più gli introiti previsti da marche da bollo, concessioni governative, multe, condanne pecuniarie, canoni per l'affitto o incassi per la vendita di beni demaniali, crediti per recuperi fissati da condanne penali, magazzini statali, musei e beni culturali) sapete in quanti sono? Quattro. Quattro magistrati contabili in tutto, per l'intera Italia. Più una decina di colleghi a mezzo servizio, quando non hanno altre cose per le mani... 
Ma può un Paese come il nostro, dove l'evasione all'Iva è valutata tra i 44 e i 51 mila miliardi l'anno e quella all'Ici intorno ai 3 mila miliardi, dove 277 mila società di capitale (52,7%) non pagano tasse perché dichiarano (miracoli dell'elusione) un bilancio in rosso o in perfetta parità, dove secondo uno studio di Bernardi e Bernasconi vengono annualmente sottratti al fisco 230 mila miliardi, avere nella torretta del supremo organo di controllo contabile sulle entrate la miseria di 4 magistrati a tempo pieno più una decina a mezzo servizio? 
Con quale faccia ci si può poi stupire se per vent'anni non vengono riscossi i miliardi di danni causati all'erario dal crac Ambrosiano? Se un Comune toscano lascia decadere il recupero, già fissato con una sentenza e relativo sequestro della casa, dei 50 milioni rubati da un sindaco ladro che si era fatto l'appartamento? Se in Calabria (dove perfino il presidente regionale della «Corte» è «in comproprietà» con la sede di Cagliari), c'è un'amministrazione municipale che alla voce «imposta sui rifiuti» prevede introiti per oltre 500 milioni e finisce per incassare in realtà 250 mila lire? 
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. E sono perfino più neri del già nero ultimo consuntivo il quale, confessando con assoluto candore che «le pronte riscossioni si devono quasi esclusivamente all'adempimento spontaneo dei contribuenti» data la sgangherata «azione di recupero dell'evasione, di lentissima quanto incerta realizzazione», spiegava come il tasso di riscossione fosse «modestissimo» e si aggirasse nella media degli ultimi anni intorno al 12%, con uno slittamento nel '97 a un abissale 6 per cento. 
Una catastrofe. Eppure, a spulciare voce per voce nei numeri denunciati da Caianiello, il quadro è ancora peggiore. Basti dire che in quel '97, sesto anno dell'«era virtuosa» aperta dalla stangata del '92 di Giuliano Amato eppure segnato da un'evasione accertata e sanzionata di oltre 25 mila miliardi soltanto per l'Irpef e l'Iva, i vecchi crediti dell'Iva riscossi sono stati pari a 247 miliardi contro un arretrato di 22.469: l'1,26 per cento. Una percentuale in linea con quelle del recupero delle vecchie ammende inflitte dall'autorità giudiziaria (1,75%), delle multe date ai cacciatori fuorilegge (2,75%), delle sanzioni pecuniarie fissate dai giudici amministrativi: 1,02%. 
Percentuali così umilianti da far passare in secondo piano (allegria...) quelle relative alla riscossione dei vecchi crediti frutto dei «proventi dei beni del demanio marittimo» (4,86%), dei «diritti erariali sui permessi di prospezione e ricerca mineraria» (3,77%) o dei «redditi di beni immobiliari per affitti, concessioni e canoni vari» (10,34%: hurrà!). Per non parlare, pietosamente, dei «proventi del demanio storico, artistico, archeologico e culturale». Il più importante del pianeta, ci dicono da anni. Eppure tra il '93 e il '97 ci ha consentito il recupero di arretrati per 2 miliardi e 405 milioni. Il costo di un ponte su una strada secondaria. 
Possiamo andare avanti così? Eppure ogni tentativo di riforma, a partire da una netta separazione tra le due funzioni della Corte dei Conti, di qua l'attività giurisdizionale (cioè le inchieste, i processi, le sentenze) e di là quella di controllo sulla gestione del pubblico denaro, non passa. A vuoto la riforma tentata da Massimo Severo Giannini, a vuoto quella tentata da Sabino Cassese, a vuoto (per ora) quella tentata da Franco Bassanini. 
Per ribaltare finalmente l'impostazione tutta codici e codicilli in favore di una nuova stagione «europea» centrata sull'esame dei rendiconti di cassa (insomma: meno avvocati, più ragionieri), la «Bassanini» aveva previsto la rottura del monopolio dei laureati in legge e l'assunzione anche di laureati in economia. Ma non è stata applicata neanche nell'ultimo concorso. «Tutta colpa della difesa corporativa dei miei ex colleghi», accusa Girolamo Caianiello: «Si sono impossessati della loro nave manco fossero gli ammutinati del Bounty. E non si sono ancora accorti che, nel frattempo, i velieri sono stati soppiantati dagli aliscafi». 
di GIAN ANTONIO STELLA,