Così l’appello rinvia la pena  

da Il Sole 24 ore del 22.5.98 

di Mario Chiavario 
Cuntrera, come Gelli, uccel di bosco perché “presunto innocente”?  Posta in questi termini, la domanda ha quasi il sapore di un sarcasmo aggiuntivo, rispetto ai tanti cui si sono prestati taluni dettagli tragicomici delle recentessime sparizioni di “venerabili” e di “pezzi da novanta” (sino alla quasi incredibile storia del fax di particolare “allerta” lasciato per cinque giorni sulla scrivania di un magistrato assente...). 
Mentre le più strumentali polemiche politiche sembrano lasciare il posto, da un lato all’esigenza di una ricerca puntuale di singole responsabilità, disciplinari o d’altro genere, per fatti specifici, dall’altro alla riflessione sulle cause più profonde delle disfunzioni, quella domanda assume però un diverso spessore se la si intende come contributo, sia pur provocatorio, a riconsiderare le conseguenze di un modo tutto “italiano” di concepire e di realizzare quello che, ben inteso, nel suo nucleo essenziale resta uno dei più basilari capisaldi di un processo penale “liberale”: la presunzione, appunto, d’innocenza. 
Alla radice — bisogna ammetterlo — sta il collegamento tra la formula diretta a esprimere il principio nell’articolo 27 della nostra Costituzione («L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva») e un sistema di impugnazioni penali che tradizionalmente poggia sul riconoscimento pressoché generalizzato di un diritto all’appello e sulla consacrazione, a sua volta addirittura a livello costituzionale, della ricorribilità per Cassazione di tutte le sentenze. È la regola, insomma, dei tre gradi di giudizio come tappe normali del processo.  Ne viene che appelli e ricorsi risultano il più delle volte usati, non per ottenere modifiche (spesso insperabili) dei giudizi di colpevolezza formulati dai giudici di primo grado, ma soltanto per prolungare artificiosamente la durata dei processi, sperando nella prescrizione oppure in una scarcerazione per decorso dei termini massimi di detenzione “cautelare”. E l’apparato giudiziario è così costretto ad affannose acrobazie — non sempre coronate, e talvolta non coronabili già in partenza, da successo — per “rispondere” a tutta una serie di manovre, impensabili in altri Paesi nei quali, ben più che in Italia, ci si preoccupa sì di limitare rigorosamente i casi di vera e propria “detenzione in attesa di giudizio”, ma poi non ci si scandalizza se — in armonia, del resto, con quanto stabilito anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo — le condanne a pene detentive possono comportare, in quanto tali, una immediata esecutività della sanzione (fermo restando, per il condannato, il diritto di impugnare la sentenza al fine di veder correggere o annullare eventuali errori e di ottenerne la riparazione). 
È una tematica, questa, che in Italia si ha sempre una notevole ritrosia ad affrontare, se non sulla spinta di episodi clamorosi come quelli di questi giorni, quando lo stesso capo dello Stato — peraltro, da sempre attento e geloso custode del patrimonio storico della prima parte della Carta del ’48 — si spinge a suggerire come naturale una lettura della presunzione d’innocenza limitata ai due gradi del giudizio di merito, in una prospettiva che appare antitetica rispetto alle correnti interpretazioni (ma, a dire il vero, anche rispetto al tenore letterale) dell’articolo 27.  Come sempre, la strada per conciliare esigenze (reali) di garanzia ed esigenze (altrettanto reali) di difesa della società e di correttezza complessiva dell’amministrazione della giustizia è verosimilmente tutt’altro che semplice. C’è però anche da domandarsi se sia sempre stato sfruttato fino in fondo il complesso di meccanismi compensativi già oggi esistenti, a partire da quello che, «nei confronti dell’imputato scarcerato per decorrenza dei termini», consente al giudice di disporre, «qualora permangano le ragioni che avevano giustificato la custodia cautelare, le altre misure cautelari di cui ricorrono i presupposti» e che giunge sino al ripristino della custodia nel caso di trasgressione a tali misure o di accertato pericolo di fuga da parte del condannato, nonché alla legittimazione del fermo di polizia giudiziaria per l’imputato che, trasgredendo alle prescrizioni a lui imposte all’atto della sua scarcerazione, si sia effettivamente dato alla fuga.