Non cadere nelle logiche di emergenza 

da Il Sole 24 ore del 22.9.99

di Edmondo Berselli
Sull’onda della cronaca, ci si dimentica che il tema della sicurezza mal si adatta a essere trattato come un’emergenza. Le emergenze sono nei fatti, e nell’inquietudine dei cittadini. Ma se accettassimo di trattare la sicurezza sotto una stretta logica emergenziale, dovremmo poi trarne tutte le conseguenze. In primo luogo, ragionare in chiave di "guerra" contro la criminalità. Ma è un atteggiamento razionale? Le guerre implicano misure straordinarie e provvedimenti eccezionali. E dato che la questione della sicurezza non è transitoria, in quanto è connaturata alle trasformazioni sociali contemporanee, allora dovremmo prevedere un conflitto di lunga o lunghissima durata, senza ragionevoli prospettive di conseguire in tempi certi il ristabilimento dell’ordine desiderato.
Conviene quindi riflettere a fondo e con freddezza sulle categorie che vengono usate in questi giorni. E aggiungere come premessa che il mantenimento della sicurezza non coinvolge solo il fronte caldo della lotta alla criminalità, ma è la condizione primaria ed essenziale della vita civile di un Paese avanzato: è lo sfondo necessario per l’esplicarsi della vita e del lavoro dei cittadini, per l’attività delle imprese, per qualsiasi aspetto in cui la dimensione privata incrocia la sfera collettiva.
Sotto questa luce, è bene ricordare che la criminalità in Italia ha un presente ma anche un passato, e che la sensazione di impotenza attuale non è un fenomeno perverso comparso misteriosamente nel paesaggio nazionale. Oggi l’attenzione si concentra sui delitti individuali, che investono l’esperienza diretta dei cittadini e determinano un clima di allarme. Ma pur senza attribuire riduttivamente questo allarme alla "bolla mediatica", cioè a una specie di nevrosi informativa, sarebbe fuori luogo dimenticare che il problema della sicurezza è un problema storico, oltre che politico, del nostro Paese.
Preso atto dunque che in questo momento c’è una sensibilità bruciante per tutte le manifestazioni di criminalità diffusa, sarebbe il caso di ricordare che vaste e ramificate organizzazioni illegali hanno condizionato pesantemente intere realtà del Paese. Ci siamo dimenticati le deplorazioni sulle regioni sottratte al controllo dello Stato? Abbiamo perso di vista il ruolo che le costellazioni mafiose hanno avuto nel mancato sviluppo di larghe aree del Mezzogiorno? Non ci preoccupano più gli insediamenti criminali di queste articolazioni del crimine nelle zone più produttive del Paese?
Sotto questa luce, non dovrebbe sfuggire la connessione fra criminalità organizzata e criminalità diffusa. Si tratterebbe di una constatazione elementare, se non fosse che contiene il monito a non considerare l’istanza politica della sicurezza dei cittadini come qualcosa che si può gestire con misure estemporanee, adottate sull’onda dell’allarme sociale. Non sarà un bracciale elettronico alla caviglia di individui socialmente pericolosi, non saranno altri espedienti e altre scorciatoie a risolvere il problema, così come serviranno a poco le discussioni sul maggiore o minore garantismo della legislazione e della giurisprudenza nazionale.
E presumibilmente saranno di scarsa utilità anche gli annunci affannosi di investimenti sulle forze di polizia e della magistratura. I "pacchetti anticrimine" e tutto ciò che viene attuato sul filo dell’estemporaneità tendono a rivelare più che altro la crisi delle strutture pubbliche, lo scoordinamento delle forze di controllo, l’inefficienza della giustizia, e di riflesso l’improvvisazione della politica.
Qualcosa bisogna fare, occorrono segnali, ma non si producono miracoli con le trovate, se alle spalle ci sono decenni di imprevidenza e di trascuratezza. Che ciò sia stato favorito da pregiudizi ideologici e da atteggiamenti che hanno impedito di vedere la realtà non muta la complessità dei problemi. Come in tutta Europa, le parole d’ordine della retorica contro la legge e l’ordine sono state abbandonate: resta però il fatto che in questo momento siamo di fronte a un’insorgenza dell’opinione pubblica contro ciò che viene percepito come ragione di degrado sociale e invivibilità collettiva, e che ciò pone alla politica una esplicita questione di credibilità delle risposte.
Per questo, nel momento in cui la necessità di un ordine regolato diventa una priorità politica stringente, i rimedi dell’ultima ora risultano poco convincenti. Poiché si tratta di un tema politico, è la politica che deve rispondere: ma con un impegno di portata programmatica, cioè con misure coordinate e di medio-lungo periodo, che facciano leva sul consolidamento e la messa in efficienza degli organismi di controllo, di repressione, di giudizio e di custodia, e su un’articolazione funzionale dei poteri centrali con i poteri dislocati territorialmente. Più facile dirlo che farlo, naturalmente. Ma d’altro canto alzare gli stendardi di una presunta "guerra" alla criminalità senza aver chiarito gli obiettivi principali, senza avere approfondito con quali strumenti l’impegno per la sicurezza va perseguito, senza un esame spregiudicato dei mezzi e delle modalità necessarie, e anche senza una percezione nitida delle richieste provenienti dalla società, a suo modo è peggio di un crimine: è classicamente, un errore.