Certezza della pena
da La Repubblica del 22.9.99
di GIAN CARLO CASELLI
DIRITTO alla sicurezza. Se non vogliamo farne soltanto uno slogan da
ripetere finché dura la moda, bisogna non aver paura di ricorrere
a strumenti idonei. Il cittadino è stufo di un mondo che invece
di affrontare la sostanza dei problemi si avvita nelle contrapposizioni
di parte. L'uomo della strada (sul quale la cosiddetta microcriminalità
agisce con effetti di progressivo accumulo, formando alla fine una valanga
di cupa sfiducia) vuole risposte concrete.
Non gli interessano le sottigliezze di certi commentatori, secondo
cui veri responsabili dei furti e delle rapine che si commettono ovunque
in Italia sarebbero quei magistrati che inseguono anche i potenti corrotti
o gli alleati dei mafiosi. Meno che mai gli interessano le risse fra politici
o le strane graduatorie fra sicurezza e giustizia.
QUEL che il cittadino vuole (dopo tante richieste andate a vuoto) è
che si ponga effettivamente mano agli strumenti disponibili per ricalibrarli.
Nel quadro di un vero progetto, capace di contrastare il clima avvelenato
che grava sul Paese.
Occorrono, dunque, risposte concrete e urgenti in tema di sicurezza
e giustizia. Temi inscindibili, perché non si può neanche
immaginare un aumento di sicurezza senza una maggior efficienza della giustizia.
Quali che siano le risposte in termini di leggi, uomini e mezzi, ci vuole
in ogni caso un propellente che consenta al nuovo meccanismo di funzionare.
Questo propellente è la coerenza. Merce che a volte sembra piuttosto
rara.
Non si è coerenti se si invocano sicurezza e giustizia e non
si stanziano i fondi assolutamente indispensabili. Da sempre, quanto a
bilancio, la Giustizia è relegata in un sottoscala, come una cenerentola
di cui vergognarsi. Con i fichi secchi si fanno nozze molto povere. Non
tenerne energicamente conto significa rinunziare, in partenza, a ogni progetto
che non sia vuoto od effimero.
Non c'è coerenza se si invocano sicurezza e giustizia e nello
stesso tempo si lavora per un processo giusto a senso unico. Vale a dire
un processo che si preoccupa quasi esclusivamente delle garanzie degli
imputati (che sono, sia ben chiaro, sacrosantamente incontrovertibili),
trascurando invece funzionalità ed efficienza. Processo davvero
giusto è quello che garantisce - oltre all'imputato - anche le vittime
e la cittadinanza tutta, assicurando pene certe che operino come deterrente
e diminuiscano la recidiva, contribuendo così a una maggiore tranquillità
sociale.
Non c'è coerenza se si invocano sicurezza e giustizia e non
si fa poi nulla di concreto per accelerare i tempi del processo, oggi vergognosamente
lunghi. Se il processo continuerà ad essere pensato come una specie
di corsa ad ostacoli, posti prevalentemente a tutela degli imputati, sarà
obiettivamente incentivato il ricorso - anche legittimo - all' ostruzionismo
processuale in vista dell'agognata prescrizione. Con la conseguenza che
i potenziali (o già esperti) delinquenti non sentiranno minimamente
il rischio di un processo come freno al loro agire. E allora, coerenza
vuole che si ponga mano anche al problema di un' eventuale anticipata esecuzione
della pena. Nonché al problema dei vari gradi di giudizio cui oggi
si accede, sempre ed inesorabilmente, senza alcun filtro: intasando il
sistema fino a bloccarlo.
Non v'è coerenza quando si chiedono sicurezza e giustizia mentre
si opera per una riforma del 513 che non realizza un effettivo contraddittorio
fra le parti (prevedendo, ogni volta che sia possibile, l'obbligo del dichiarante
di rispondere alle domande dell'accusa e della difesa), ma lascia la porta
spalancata al silenzio del dichiarante medesimo e perciò all'impunità
dei colpevoli.
Non v'è coerenza con le richieste di sicurezza e giustizia se
rimane bloccata, di fatto, la necessaria revisione della legge sui "pentiti":
mezzo di indagine delicatissimo, da usare con "diffidenza tecnica" sempre
massima, ma che non si può congelare se non spuntando uno strumento
di contrasto ancora decisivo.
Infine, coerenza nella richiesta di sicurezza significa anche (come
ben argomenta Duccio Scatolero nell'ultimo numero di Narcomafie) un "richiamo
forte al recupero di una dimensione sociale dei problemi. Il problema sicurezza
è vecchio come le città: la sua attuale esplosione è
stata determinata (anche) dalla crisi della dimensione relazionale dell'ambiente
di vita. A quel punto ci si è sentiti soli e in pericolo e ci si
è scoperti "insicuri da morire"".
Facciamo in modo (suggerisce ancora Scatolero) che strade, giardini,
cortili e spazi davanti ai negozi diventino - invece che deserti minacciosi
- luoghi di incontro, di movimento, di presenza umana protettiva da aggressioni
e violenze. Anche così riusciremo a colmare quel deficit di rassicurazione
dei cittadini che non è soltanto allarmismo ma problema reale
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