Intervista
a Gabriella Luccioli, la prima donna giudice alla Corte dal ’90
da Il Sole 24 ore del 23.4.99
ROMA — «Sono convinta che sentenze come quella sui jeans, così
palesemente inaccettabili, si spiegano solo con l’esistenza di un "pregiudizio
di genere" da parte del giudice. Questo rischio esiste anche per la Cassazione,
perché l’interpretazione di una norma non è mai completamente
neutra ma richiede riferimenti a standard valutativi. E qui entra in gioco
la cultura del giudice. È un problema che porrò all’Assemblea».
Gabriella Luccioli è la prima donna che ha vestito i panni del
giudice di Cassazione, nel 1990. Sposata, con due figlie di cui una ha
seguito le orme materne, fa parte dell’Associazione nazionale donne magistrato
ed è sempre stata molto attiva sul fronte delle "pari opportunità".
Tuttavia, non ama erigere steccati tra i sessi né ritiene che le
donne siano depositarie di risposte di giustizia più elevate rispetto
a quelle dei colleghi maschi. «Anzi — precisa — mi capita spesso
di leggere sentenze scritte da colleghe, intrise di cultura maschilista,
in cui è difficile riconoscere l’impronta di genere. Il problema
è cambiare una cultura di cui uomini e donne sono portatori. E di
questo cambiamento devono farsi promotrici anzitutto le donne». Perciò
oggi Luccioli porrà questo problema in assemblea: «Sarà
solo un piccolo intervento — precisa — se non altro per ridimensionare
un po’ la rappresentanza di genere, in Cassazione così squilibrata
a favore degli uomini».
Come mai soltanto 22 donne su 400 giudici?
C’è una sperequazione incredibile. Di donne che avrebbero titolo
per essere in Cassazione ce ne sono moltissime. Questo, però, è
un fatto generale: ci sono poche donne a capo di uffici, sia a livello
direttivo che semidirettivo. Ciò dipende anche da un fenomeno di
autoesclusione, nel senso che per le donne è ancora un peso il doppio
ruolo. Senza contare che venire a Roma a fare le udienze, per chi vive
altrove, è un costo che non tutte possono o hanno la spinta ad affrontare.
Com’è il rapporto con i colleghi uomini?
Oggi il nostro lavoro è considerato in modo assolutamente paritetico.
Quando io sono arrivata, il problema serio era quello di omologarsi totalmente,
per cui si perdeva l’identità di genere, per diventare consigliere,
il più omologato possibile.
Qual è stato l’apporto del femminile?
Nella mia sezione, che si occupa di diritto di famiglia, noi donne
abbiamo contribuito a una giurisprudenza molto innovativa, attenta ai diritti
delle donne. Ora registro quest’apertura anche nei colleghi, forse perché
abbiamo saputo fare discorsi condivisi e si è formata una cultura
diversa.
La Cassazione è giudice di legittimità e non di merito.
In che senso una norma può essere di genere maschile o femminile?
La norma molto spesso rimanda al giudice la scelta tra valori diversi,
tutti tutelati dall’ordinamento; oppure gli dà ampia discrezionalità
perché è una norma in bianco o contiene parametri che devono
essere riempiti attraverso la cultura del giudice. È in questo momento
che si può inserire il pregiudizio, inteso come stereotipo, luogo
comune, idea preconcetta. Ci sono tante clausole generali: il concetto
di notorio, di massima di comune esperienza, di buona fede. Sono clausole
che vanno riempite sulla base di standard valutativi. E qui entra in gioco
la cultura del giudice.
Ne parlerà in assemblea?
Con tutti i limiti che la sede comporta, vorrei abbozzare un discorso
sul pregiudizio di genere nell’interpretazione della norma: tema dibattutissimo
negli Stati Uniti e nei sistemi anglosassoni, in Italia soltanto da pochi
anni è stato affrontato dal Csm in alcune giornate di studio, grazie
all’Associazione donne magistrato, di cui faccio parte. Il problema è
come il pregiudizio, non solo di genere, ma culturale, possa insinuarsi
nel momento giurisdizionale, inquinandolo. Non sarà facile accettare
un confronto su questo tema perché, tra l’altro, esiste un pregiudizio
sul pregiudizio, in quanto imputare al giudice di non essere indipendente
nel giudizio è cosa che lo mette profondamente in crisi.
D.St.
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