A Diliberto non piace il magistrato-poliziotto 

da La Repubblica del 23.1.99

di LIANA MILELLA 
ROMA - Di scritto non c’è ancora niente. Non c’è, come si dice in gergo tecnico, un nuovo articolato. Neppure una singola norma inedita. Ma gli ordini, invece, ci sono. E quelli sì, molto chiari. Il consiglio dei ministri di venerdì 15 gennaio era appena terminato quando il ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto, si è riaffacciato in via Arenula. Ha riunito le sue teste d’ uovo, il capo di gabinetto Loris D’ Ambrosio, il capo dell’ufficio legislativo Wladimiro Zagrebelsky, il direttore degli Affari penali Giorgio Lattanzi con il suo vice Domenico Carcano. Ha misurato a passi lunghi il suo ufficio e ha posto una domanda cruciale: “Ma come facciamo a tenerli dentro?”. Il Guardasigilli, che non si può definire un fans del carcere, ragionava a voce alta su una necessità: rendere le pene certe e punire in modo adeguato chi delinque, anche i gangster da strada che stanno rendendo sempre più drammatica la vita nelle grandi città. Non solo.  Diliberto meditava anche su un’altra questione che, nei giorni dolorosi di Vittoria e di Milano, è ritornata d’attualità: rivedere e riequilibrare i poteri tra i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria. Ancora a voce alta il ministro ha riflettuto:
“Il pm non deve essere un poliziotto, ma colui che dirige le indagini per andare al processo”. 
Dopo una settimana alla Giustizia ci sono più idee che pezzi di carta. Siamo lontani dal futuro pacchetto anticrimine che il premier D’Alema vuole approvare. Prima di vederlo nero su bianco ci vorranno una quindicina di giorni. Ma una cosa è certa: in quel pacchetto ci potrebbero essere alcune
decisioni che potrebbero piacere molto ai giudici (un inasprimento della custodia cautelare, il carcere dopo una doppia sentenza di condanna), ma anche altre che invece potrebbero dispiacere. Come l’accresciuto potere della polizia giudiziaria. 
L’allarme del procuratore aggiunto di Torino, Giuseppe Guariniello, è intempestivo perché si fonda su un testo - la relazione ultimata a febbraio 1998 dall’ex presidente della Consulta Giovanni Conso per il ministero dell’Interno - che vale solo come materiale di studio. Non ha, quindi, alcun significato politico. Su quelle 200 pagine non c’è, per intenderci, l’imprimatur del ministro. Tuttavia, dei problemi posti da Conso - un pm che, come oggi, non ricerca da solo la notizia di reato, ma lavora sulla base delle indagini svolte dalla pg - la discussione è aperta. Ed è destinata ad andare avanti. 
Le basi sono queste. Ci vuole un riequilibrio di poteri pm-pg, ma nessuno sta ipotizzando - spiegano a via Arenula - “un esautoramento di un potere a dispetto dell’ altro”. Interni e Giustizia dovranno discutere insieme. Per ora il Viminale ha spedito quel vecchio studio di Conso.  Che individuava una serie di modifiche al codice di procedura penale. Gli articoli 55 (Funzioni della pg), 330 (Acquisizione delle notizie di reato) e 335 (Registro delle notizie) subivano ritocchi rilevanti: il pm non potrebbe più “di propria iniziativa” cercare e prendere le notizie di reato.  Conso ipotizzava anche di modificare, aumentandoli, altri poteri della pg in materia di perquisizioni (articolo 352) e di delega agli interrogatori (370), autorizzando poi il fermo di polizia (384) sganciato dall’autorizzazione del pm.
Dicono alla Giustizia: “Il pm deve fare il magistrato e non il poliziotto. Deve ritornare ad avere il suo ruolo di controllo.  Non può e non deve lavorare solo su un’indagine, lasciando tutto il resto nell’ armadio, mentre carabinieri e polizia stanno a guardare. Bisogna impedire deviazioni ed esibizioni oltre il proprio ruolo, ma lasciando al pm tutto lo spazio possibile quando gli investigatori non si muovono per ragioni di tempo o per freni politici”. Per dirla con una battuta: il pm non può partire da un assunto del tipo “c’è la corruzione in Italia” e cercarsi poi le prove. Nessuno, però, sta mettendo in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale. 
La questione è delicatissima. Comporterà lunghe riunioni. È troppo presto, e non ci sono le carte sufficienti, per capire quali saranno le scelte del governo.
La situazione è identica per il capitolo certezza della pena.  Solo i punti di partenza sono chiari. Come si dice nel diritto canonico, a via Arenula si sta pensando alla doppia conforme. Cioè: dopo una doppia sentenza di condanna, in primo grado e in appello, si aprono le porte del carcere. Se n’era già parlato nel piano antifughe approvato dal governo Prodi dopo i casi Gelli e Cuntrera. Oggi la questione si ripropone non solo per i reati gravi, ma per tutti. La via di una legge costituzionale è impraticabile. Anziché ipotizzare l’esecuzione di una sentenza, è necessario ragionare in termini di misure cautelari. Stabilendo, per esempio, che la doppia condanna può comportare, di per sé, il pericolo di una fuga. Ma siamo alle ipotesi. 
E ipotesi sono anche quelle di un inasprimento della custodia cautelare. Una sorta di ritorno indietro rispetto alle leggi sempre più garantiste del periodo di Tangentopoli, culminata con il decreto salva-ladri del luglio 1994. Dicono i tecnici: “Con quelle leggi si salvavano i protagonisti di Mani pulite, ma uscivano fuori anche gli scippatori”. Ora bisogna tornare indietro. Siamo alle congetture, peraltro suggestive: un ladruncolo potrebbe essere messo in galera perché è già stato denunciato tre volte. Ci sarebbe il rischio della reiterazione del reato. Oppure, per il pericolo di fuga, quelli che oggi vengono definiti “elementi concreti” potrebbero diventare “presunti”. E le manette scatterebbero più in fretta.
C’è un’ultima questione che angoscia gli esperti di Diliberto:
il 513. Qualora venisse cambiato in chiave garantista (se l’imputato in aula non conferma le accuse rese in istruttoria si butta via tutto), le condanne sarebbero più difficili. E ci sarebbe un maggior numero di potenziali rapinatori e assassini in giro. Che fare, allora, sul 513?