Appello dal carcere: «Mio figlio è in coma, non posso vederlo»

da Il Corriere della sera del 23.9.99

Aldo è in coma. Da tempo è inchiodato su un lettino senza muovere un muscolo. Comunica solo con gli occhi. Ma suo padre non può andarlo a trovare. Non può parlargli. Non può stringergli le mani. Neppure per un attimo. Nemmeno ogni tanto. Suo padre è un detenuto di Opera. E l'articolo 30 della legge Gozzini parla chiaro: «Si possono concedere permessi solo nel caso in cui un familiare è in pericolo di vita imminente o, eccezionalmente, per eventi familiari di particolare gravità». 
Ma Aldo è «soltanto» in coma. Per i giudici la sua vita non è in pericolo. Le sue condizioni sono croniche, non disperate. Così, per due volte, il Tribunale di sorveglianza ha respinto la richiesta di lasciare il carcere al padre del ragazzo, Abelardo Grasso, 50 anni, rinchiuso nella casa circondariale di Opera dove dovrà scontare una pena fino al 2008 per fatti di droga che risalgono al '93. 
«Il mio assistito - spiega l'avvocato Raffaele Ronchi, legale del detenuto - ha una gran voglia di vedere il suo Aldo, di stringerlo forte. Vive solo per questo. Un incontro che, oltre a giovare al padre, potrebbe portare dei benefici sul piano terapeutico al giovane». 
L'uomo ha chiesto fin dallo scorso aprile di poter abbracciare il figlio, ricoverato in coma per una grave patologia all'istituto Don Gnocchi. Ma la richiesta è stata respinta. Nell'ordinanza con la quale i giudici hanno motivato il loro «no», si fa accenno all'articolo della legge Gozzini. E la legge, è legge. 
Abelardo Grasso, però, non si è arreso. Ha presentato ricorso il 25 agosto, ma anche questa volta si è sentito negare il permesso. I giudici Vincenza Maccora e Bruna Corbo, pur comprendendone i motivi, hanno ribadito il loro «no». «Pur risultando umanamente comprensibili le ragioni del reclamante - si legge nella motivazione del Tribunale - tuttavia non appare tecnicamente prospettabile, perché giuridicamente non corretta, la periodica fruizione di permessi ai sensi dell'articolo 30 in presenza di familiari affetti da patologie croniche ma non in pericolo di vita». 
Una interpretazione che l'avvocato Raffaele Ronchi respinge con forza anche perché, secondo il legale, «basata solamente su un rapporto di un commissariato di polizia e non su accertamenti medici o consulenze che spieghino la natura della patologia. Una cosa è certa, Abelardo Grasso continuerà la sua battaglia. In galera ci deve rimanere per altri nove anni. Un'eternità se non riuscirà a rivedere il figlio malato». 
La vicenda di Aldo fa tornare alla mente un caso analogo. Quello di Emanuela, 5 anni, di Limbiate, affetta da distrofia muscolare irreversibile, e di suo padre, Mario Fagioli, 53 anni, detenuto in Svizzera per rapina. L'uomo più volte si era rivolto ai giudici per poter avere dei permessi. Voleva stare un po' vicino alla figlia che stava morendo. Ma per due anni gli furono negati. Poi, l'8 giugno 1988 ottenne un permesso di tre ore, viaggio compreso. «Troppo poco - disse - non c'è stata pietà nemmeno di fronte alla morte». E quattro giorni più tardi Emanuela cessò di vivere. 
Michele Focarete,