Giustizia
diversa ma più efficace
da La Repubblica del 24.6.98
di SILVIA GIACOMONI
Le carceri sono affollate. Il senso comune le considera scuole di delinquenza.
Per le note ragioni politiche, non sappiamo accordarci su indulti e amnistie
che rendano meno drammatica la convivenza nelle celle; ma nessuno, a destra
come a sinistra, vuole più sprecare danari per costruire nuove prigioni.
Da questa situazione di stallo è nata la legge Simeoni- Saraceni
che, facilitando l’applicazione delle “pene alternative”, dovrebbe migliorare
la situazione. Non vogliamo entrare nel merito della legge e dei pretestuosi
scompigli che ha provocato, ma solo indicare un suo effetto benefico: ci
costringe a prendere atto che il buon vecchio diritto penale è in
fin di vita e che ci tocca inventare nuovi meccanismi di giustizia.
Non possiamo lasciare le cose come stanno, mantenere in vita un sistema
di norme che non si vogliono e non si possono eseguire. Perché i
cittadini tornino ad avere fiducia nella giustizia, dobbiamo trovare altri
modi per risarcire le vittime: e medicare le lacerazioni sociali provocate
dalla delinquenza. La cosa non è impossibile. Da anni i nostri
giuristi discutono sul tema e, mentre si va all’abolizione dell’ergastolo,
tra gli addetti ai lavori hanno trovato grande consenso le parole del cardinale
Martini sulla necessità di ricercare non delle “pene alternative”
al carcere ma delle “alternative alla pena”. Non si tratta di essere buonisti,
ma di trarre le conseguenze dalla consapevolezza che le pene non riabilitano
il condannato né sanano le lacerazioni sociali.
Per troppo tempo la domanda di giustizia è stata solo una domanda
di pene. Guardiamo agli Stati Uniti, dove la ricerca del consenso politico
passa attraverso l’inasprimento delle pene e oramai si condannano a morte
persino gli handicappati. Grazie alla nostra complicatissima storia, grazie
alla nostra coscienza anarcoide e molto umana, quel modello lo abbiamo
rifiutato da tempo. Ora dobbiamo andare oltre, rompendo il circolo vizioso
per cui si ricorre alla pena
unicamente perché - come risposta al delitto - abbiamo soltanto
la pena.
Presso i Tribunali per i minori di città come Torino e Milano
già si sperimenta un metodo di composizione dei conflitti alternativo
al processo e alla pena. Il ferito e il suo aggressore, lo scippato e lo
scippatore si trovano faccia a faccia davanti a un mediatore che li aiuta
a ristabilire la comunicazione. I due si parlano, esprimono il loro vissuto,
si accordano sul risarcimento che può essere concreto o puramente
simbolico.
La tecnica della mediazione penale concede alle vittime un riconoscimento
superiore a quello che ottengono nei processi, quando vedono l’imputato
a distanza, sostenuto da tante garanzie. E permette al delinquente di fare
pace non solo con chi ha offeso, ma anche con se stesso: arrivando spesso
a capire il significato profondo del proprio gesto.
Non dovrebbe essere tanto difficile trovare il modo di estendere il
ricorso alla mediazione penale anche a tanti casi in cui il delinquente
è un maggiorenne. Questa tecnica è molto interessante perché
rivela che i conflitti fra persone e culture non sono necessariamente negativi,
che la loro composizione può fare compiere a tutti dei passi avanti.
Rivela pure che la composizione del conflitto è possibile solo se
si legge in modo nuovo il concetto di responsabilità, se il delinquente
è considerato non responsabile “di” un’infrazione alla legge, bensì
responsabile “verso” la persona concretamente offesa. La mediazione
penale non è certo un toccasana, è solo una buona tecnica
già sperimentata. Ma i principi su cui si basa e i risultati cui
perviene possono essere indicativi della meta che ci si propone quando
si ricercano delle alternative alla pena: carceraria o di altro genere.
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