Le
parole sono azioni
da La Repubblica del 24.7.98
di LUCIO VILLARI
“Il linguaggio è la Casa dell’Essere”: è una definizione
di Martin Heidegger, filosofo tra i più problematici del Novecento,
filosofo dell’Essere, appunto, e, in politica, conservatore con caduta
(poi ritrattata) nel nazismo. Quella definizione, comunque la si legga,
comunica una profonda verità perché dà al linguaggio
un valore assoluto affidandogli anche la funzione di custodia e di presidio
(la “casa”) di tutti i valori che, per un metafisico, si riassumono nell’Essere
e, per un non metafisico, nelle forme della conoscenza, della comunicazione
tra gli uomini, della loro socialità.
Ebbene, chi più e meglio di un politico si serve della comunicazione
sociale? Chi se non un politico dovrebbe costantemente rifarsi al linguaggio
rigoroso dei filosofi se non, addirittura, a quello essenziale delle scienze
esatte per dare agli strumenti del suo comunicare l’apparenza e la sostanza
della verità morale e ideale? E infatti, la storia della nostra
civiltà politica (almeno da tre secoli) dimostra che al linguaggio
rigoroso e sorvegliato hanno sempre corrisposto fatti politici seri, e
positivi mutamenti del vivere sociale. Ma questa lezione ha nei tempi che
corrono (almeno in Italia) qualche attualità? Pare proprio di no.
Fino a poco tempo fa ci è capitato di irridere gli uomini politici
che si servono della storia, degli eventi e dei personaggi della storia
(che in quanto tali appartengono al territorio della conoscenza e dello
studio e non a quello degli interessi immediati) per farne oggetti di consumo
di partito. C’è stato anche un momento in cui usavano disinvoltamente
frasi latine, facendoci divertire con i loro errori da “ultimi della classe”.
Ma ora le cose vanno peggiorando. Il berlusconismo ha abbassato ulteriormente
la già bassa qualità del linguaggio politico corrente, facendo
passare forbiti comunicati commerciali per giudizi e analisi di lungo e
fulminante respiro: “regime”, “comunisti”, “persecuzione”, “rossi”, “giustizia
staliniana”, “tribunali speciali”, eccetera. Ma, come nel commercio, anche
lo spot politico va perfezionato. Così, nelle ultime ore, grazie
anche a un momentaneo risveglio storico di berlusconiani e dintorni, si
evoca il fantasma minaccioso di una possibile “guerra civile” in Italia
se non si decide di chiudere con questo processare tanti illibati personaggi,
ingiustamente accusati. Heidegger evidentemente non protegge, dal paradiso
dei filosofi, la Destra del nostro tempo.
“Guerra civile”. Perfino D’Annunzio, nei giorni infocati di Fiume,
è stato attento a non evocarla. E sì che di linguaggio immaginifico
(e commerciale) se ne intendeva. Guerra civile sono parole terribili che
neanche per scherzo (penso non tanto alle nostre orecchie allenate, ma
a quelle di giovani cittadini, studenti, operai, ragazze aperte al futuro
e alla gioia di vivere) dovrebbero essere usate come arma di ritorsione
o minaccia da parte di partiti di opposizione. Qui la degradazione del
linguaggio si identifica con una perdita di senso della responsabilità
personale e delle proporzioni. Servirsi di queste espressioni è
far tornare lo scontro politico in Italia a livello delle lotte tra famiglie
nel tempo dei Comuni. Una eredità della nostra storia che
da Dante, a Machiavelli, al Risorgimento, si è sempre considerata
un pesante fardello che ha minato per secoli la “libertà italiana”.
Dunque, facciano attenzione questi signori della politica e i loro
preoccupati sostenitori. Se la politica è, come si dice, l’arte
della mediazione anche il linguaggio va mediato; ma non nel senso della
dissimulazione onesta dell’età della Controriforma o dell’allusività
democristiana della prima Repubblica. Ma nel senso tutto opposto della
pulizia verbale che solo la pratica della logica razionale e della conoscenza
storica può garantire.
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