Il Presidente a prescindere

da Il Corriere della sera del 24.11.99

Eleggendo, l'11 novembre scorso, Giuliano Vassalli a suo presidente, la Corte Costituzionale ha dato un ottimo e insieme, però, anche un pessimo esempio. 
L'ottimo esempio (come tutti hanno subito osservato, sicché oggi è quasi superfluo dirlo) è consistito nella scelta della persona. Le virtù civili dell'impegno poli- tico, l'esperienza in alti incarichi di governo, la dottrina dello studioso, tutta la biografia di Vassalli ne facevano, e ne hanno fatto, il candidato ideale a ricoprire l'incarico. 
Peccato, tuttavia, che potrà ricoprirlo solo fino al 13 febbraio prossimo, quando cioè termineranno i nove anni stabiliti per la durata in carica di ogni giudice costituzionale, e dunque anche Vassalli dovrà fare le valigie. Alla fine, insomma, a conti fatti egli sarà stato presidente della Corte per poco più di tre mesi; ed è qui che i giudici della Consulta hanno dato il pessimo esempio di cui dicevo sopra. 
Per la verità, essi non hanno fatto altro che confermare il pessimo esempio che stanno ormai dando da qualche anno. Da quando cioè hanno preso a eleggere di continuo al proprio vertice candidati in procinto di terminare il loro mandato, e quindi destinati inevitabilmente a durare in carica sì e no qualche mese, se non addirittura i 48 giorni toccati al presidente Caianiello, vero recordman della specialità. 
+ cioè ormai invalsa da qualche anno la prassi che più o meno tutti i giudici della Corte terminino la loro permanenza in quel consesso come presidenti. Per poche settimane magari, ma presidenti. In modo che tutti o quasi abbiano la possibilità di congedarsi dalla Consulta con gli onori e i riconoscimenti materiali connessi all'aver ricoperto l'altissimo incarico. 
Si tratta naturalmente di legittime e umanissime ambizioni, per carità, che bastano a spiegare come si sia stabilito facilmente un duraturo accordo all'interno della Corte per procedere nel modo in cui da anni si sta procedendo: accordo che nessuno evidentemente ha interesse a violare dal momento che tutti, arrivato il proprio turno, sperano di beneficiarne. 
L'opinione pubblica, però, ha il diritto di chiedersi se la prassi invalsa sia davvero compatibile con l'interesse della Corte e dunque con l'interesse della collettività. Personalmente ne dubito. A me pare, infatti, che proprio per effetto della prassi adottata dai suoi membri la Corte Costituzionale venga a soffrire anch'essa, inevitabilmente, di alcuni di quei mali di cui già soffrono da tempo altre branche della pubblica amministrazione e in generale un po' tutta la vita italiana. 
Sono soprattutto tre questi mali. Il primo è la forte ostilità a riconoscere il merito individuale e ad adottare valutazioni fondate sul merito stesso. In fondo, è come se la Corte avesse messo a punto una sorta di ope legis a uso interno: tutti hanno diritto a diventare presidente. Viene così implicitamente affermato, perfino all'interno di una magistratura assolutamente atipica come è quella della Consulta, il principio dell'automatismo delle carriere. Tanto può, evidentemente, la suggestione della mentalità comune, quella medesima mentalità che ha già fatto danni rilevantissimi nei più svariati ambiti del settore pubblico, e che forse è la massima causa della sua congenita inefficienza. 
Questa tendenza è destinata peraltro a fare corpo, per attrazione quasi naturale, con una seconda, che a sua volta costituisce un secondo male. La tendenza cioè a rifiutare un po' ovunque (perfino là dove, come in questo caso, ci si trova di fronte a un'ovvia indicazione contraria) quella che non saprei chiamare altrimenti che la personalizzazione delle funzioni. 
A non accettare, cioè, l'idea che per ricoprire alcune cariche siano decisive alcune qualità e capacità inestricabilmente legate a una determinata persona, a quella persona con quel nome e quel cognome, e dunque non a un'altra, a qualunque altra: e ciò naturalmente a prescindere dal merito propriamente inteso. Infatti si può benissimo essere la massima autorità mondiale della scienza giuridica ma al tempo stesso essere inadatti, inadattissimi, a presiedere anche il più modesto dei collegi. 
Deriva da questa diffusa repulsa per la personalizzazione l'inevitabile conseguenza dello sbiadimento dei ruoli direttivi, la loro perdita di autorità e di prestigio: se chiunque può ricoprire qualunque ufficio, è ovvio che quell'ufficio finirà prima o poi per perdere di rilevanza. Si rafforza in tal modo dovunque, anche dove è meno raccomandabile, la tendenza a una sorta di radicale e anonima burocratizzazione delle attività interne ai corpi pubblici, dei loro processi decisionali, della loro vita. Con relativa, inevitabile, perdita di autonomia, di flessibilità, di inventiva. 
Tutto ciò porta, mi pare, ancora a una terza conseguenza. Al fatto cioè che in Italia ai suddetti corpi pubblici risulta da tempo impossibile, o comunque difficilissimo, costruire proprie specifiche tradizioni, vale a dire costruire un proprio specifico ethos, un insieme di valori nei quali riconoscersi e per i quali farsi conoscere, formulare un proprio stile fatto di vocazioni, abitudini, ritualità, se si vuole anche di pregiudizi o idiosincrasie. Si tratta di cose che alla propria origine hanno sempre la presenza determinante di un individuo. 
Senza Nelson la Marina britannica non sarebbe mai stata la Marina britannica, così come, per fare esempi assai diversi, senza Fermi la scuola di via Panisperna non sarebbe stata quella che è stata e senza Gentile la Normale di Pisa avrebbe sicuramente avuto un altro senso. E chi riesce a immaginare la Banca d'Italia senza le personalità che furono Stringher o Menichella? 
La storia della più antica Corte costituzionale che si conosca, quella degli Stati Uniti, è scandita dalle sue lunghe, talora lunghissime, presidenze: ognuna delle quali ha voluto dire universi giuridici, scelte ideali, orientamenti giurisprudenziali. E tutte insieme, quelle presidenze, hanno costruito una tradizione che, come tutte le vere tradizioni pubbliche, è nella sostanza una tradizione di valori etico-politici, i quali sono stati fonte decisiva della forza, dell'indipendenza e del prestigio di quel consesso. 
Peccato che la Corte costituzionale italiana abbia deciso, invece, di mettersi su tutt'altra strada, e di rinunciare a dare, almeno lei, il buon esempio: affastellando in pochi anni un numero di presidenti che, a occhio e croce, dev'essere già più o meno uguale a quello che a Washington hanno visto in oltre due secoli. 
Ernesto Galli della Loggia