Macchia: Giustizia hai un volto ambiguo

da Il Corriere della sera del 26.4.99

Esattamente vent'anni fa, recensendo un'enciclopedia dedicata ai «massimi problemi» del nostro tempo, Giovanni Macchia si interrogava sulle ragioni e sui rischi degli atti di guerra «per motivi umanitari»; e arrivava a chiedersi se una giustizia «retta solo sulla coscienza morale offesa» non fosse esposta al pericolo di tramutarsi, paradossalmente, in una disfatta della giustizia. Sono pagine di una lucidità al tempo stesso accorata e implacabile, sulle quali ci sembra giusto attirare l'attenzione dei nostri lettori non soltanto per la loro sgomentante attualità, ma anche per suggerire nel più immediato dei modi la varietà e vastità tematica del contesto, a prima vista tutto «letterario», nel quale esse ci vengono oggi riproposte. 
Sto parlando di Scrittori al tramonto, la nuova raccolta di saggi, in uscita presso Adelphi, che il grande studioso - con quell'arte, che possiede come pochi, di far scaturire l'inedito dall'edito, di aggiungere senso alle singole parti per via di accostamenti e collegamenti impliciti - ha organizzato attorno all'idea o per meglio dire all'immagine della fine: da intendersi prevalentemente, è chiaro, giusta l'indicazione del titolo, come fine dell'esistenza individuale, ma ammettendo che qualche sua estrema propaggine o vibrazione arrivi a lambire, come s'è appena visto, il destino (e declino) di un'intera civiltà. 
Al centro della riflessione, come sempre, alcuni protagonisti, famosi o segreti, della letteratura francese: da Montaigne all'innafferrabile Jean Cayrol, da Stendhal a Taine (protagonista, quest'ultimo, di una vera e propria ressurrezione critica, tanto appassionata quanto priva di inutili indulgenze); ma, come sempre, non soltanto. Tornano, accanto alle loro, presenze altrettanto familiari all'immaginazione critica di Macchia come quelle di Pirandello e di Eduardo; e fanno la loro comparsa le care ombre di maestri e amici (Pietro Paolo Trompeo, Glauco Natoli, Elena Croce, Cesare Angelini...), tutti colti, si direbbe, come su una soglia, nel momento e quasi nell'atto di un qualche congedarsi o svanire. 
Se si pensa che si tratta di scritti d'epoca e natura assai varia, nati in modo del tutto autonomo l'uno dall'altro, non può non emozionare l'evidenza di quest'unica deriva, di quest'aura o luce, davvero, di «tramonto» che li avvolge e accomuna; e non resta, ancora una volta, che alzare le mani con ammirato stupore davanti a questo prodigioso inventore di architetture après coup, a questo ispirato, infallibile scrittore di nuovissimi libri già scritti, pezzo per pezzo, da lui medesimo. E non resta, è chiaro, che dargli incondizionatamente ragione quando, alla fine della breve premessa, avanza l'ipotesi d'aver scritto così, «quasi senza volerlo», un suo De Senectute. Intendiamoci: non c'è nessuna «tesi», nel libro, sugli effetti o le prospettive della vecchiaia: per Macchia si può invecchiare bene o male, perdendo forza o acquistandola, trovando verità prima ignorate o smarrendo quelle di cui si era o ci si credeva in possesso; si può persino, sembra di capire, invecchiare (tramontare) da vecchi o invecchiare (tramontare) prima, molto prima, addirittura da giovani... Ciò che importa è misurarsi con questa «cosa», tenerne conto, sapere che si tratta, oltre e prima che di una realtà anagrafica, di una possibilità dello spirito: grande e propizia, in quanto possibilità, come tutto ciò che la natura ci appresta. 
A parte - ma fino a che punto? - sta un testo che, non a caso, figura in fondo al volume sotto la non equivocabile dizione di Appendice e che non è «scritto» bensì, alla lettera, «parlato» da Macchia, ossia l'intervista su teatro e letteratura fattagli nel 1988 da Renzo Tian. Già: fino a che punto? È noto l'amore davvero illimitato - esteso, cioè, persino a un genere clamorosamente «minore» come l'avanspettacolo - che Macchia nutre per il teatro: amore vero, amore «dalla parte del palcoscenico»; e amore, si noti, non solo per quel molto che il teatro ha di assolutamente non riducibile alla letteratura, ma anche o soprattutto per il moltissimo che esso offre alla sua comprensione, alla sua (se mi è consentita una metafora un po' tendenziosa) «messa in scena» critica: il teatro, dice Macchia a un certo punto dell'intervista, «è l'essenza, la costituzione, direi la forma stessa della mia critica, anche quando è rivolta altrove». 
Ebbene, che cos'ha a che vedere tutto questo con l'idea, anzi con la luce di tramonto che, come ormai sappiamo, intride le altre sezioni del libro? Forse niente, o forse, invece, tutto: se è vero che ogni metteur en scène degno di questo nome ama confessare in cifra la propria poetica e che niente, per cogliere il senso di ogni spettacolo e, dunque, anche dello spettacolo che si nasconde in questo libro, è più importante della luce. 
di GIOVANNI RABONI