Grasso: su quell’inchiesta il peso delle grandi stragi 

da Il Mattino del 27.9.99

RAFFAELLA LEVEQUE 
Il giorno dopo la sentenza Andreotti, Pietro Grasso era a Capri. Per il nuovo procuratore di Palermo, successore di Giancarlo Caselli, non si è trattato di una semplice vacanza: per la sua prima uscita in pubblico aveva scelto un luogo tranquillo, un simposio in cui parlare del Mezzogiorno e delle sue risorse, e non di giustizia. Era arrivato di mattina, con la moglie Maria e tre ragazzi della scorta, che dopo 15 anni di vita blindata sono ormai come di famiglia. 
Era arrivato contento di aver strappato qualche ora per una passeggiata, senza dover comunicare ogni passo, senza autoblu e fax in prefettura. Ma quell’appuntamento preso con Pascal Vicedomini è coinciso proprio con il momento in cui tutto l’interesse si è spostato da Perugia alla sua Procura. E così, sabato sera, Pietro Grasso prima di sedere tra gli altri relatori - gli avvocati Paola Severino e Massimo Krogh e i giornalisti Giovanni Valentini e Lucia Annunziata - immaginava già che, oltre al Sud, si sarebbe parlato dell’argomento del giorno: i processi indiziari, i pentiti e la loro attendibilità. 
«Io non li chiamo pentiti: tra tutti quelli che ho incontrato, non mi è sembrato di cogliere mai un reale sentimento di pentimento - ha esordito Grasso -. Chiamiamoli collaboratori di giustizia, persone che decidono di raccontare ciò che sanno solo per ottenere delle agevolazioni». «Se non ci fossero stati i collaboratori di giustizia oggi sapremmo ben poco di alcuni delitti - continua il procuratore -. La mafia, come tutte le organizzazioni criminali, si basa sulla segretezza, sull’omertà. Abbiamo rotto quel muro, i mafiosi non si fidono più gli uni degli altri. Sanno, ogni volta che danno un ordine, che questo potrà essere riferito se uno degli anelli si stacca dalla catena. L’omertà era una delle loro forze maggiori. L’abbiamo, in qualche modo, smontata». 
I relatori lo incalzano: la sentenza di Perugia potrà influenzare il giudizio di Palermo? «Assolutamente no - ribadisce Grasso -. I due processi sono sostanzialmente diversi. A Perugia l’accusa era di mandante di omicidio, una delle cose più difficili da ricostruire. Quando un’inchiesta si basa sulle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, è necessario fare lunghissimi riscontri, proprio perché spesso ciò che si racconta non è un’esperienza diretta». E sulle indagini, le avrebbe condotte allo stesso modo, gli chiede provocatoriamente la Annunziata. «Ho una mia idea di quel processo, ma dirla oggi non avrebbe senso: c’è una sentenza, suonerebbe solo come una critica verso chi vi ha lavorato duramente - spiega il procuratore -. Bisogna però pensare al clima di quegli anni: c’erano state le grandi stragi, era scoppiata tangentopoli. Sono fattori che non possono non essere presi in considerazione. Influenzano l’opinione pubblica, influenzano gli uomini. E i giudici sono uomini».