In Cassazione solo per evitare il carcere 

da Il Sole 24 ore del 28.2.99

ROMA — «Eccellentissima Corte di cassazione, il presente ricorso ha esclusivamente lo scopo di impedire il passaggio in giudicato della sentenza e quindi l’esecuzione dell’arresto del mio cliente, vanificando così i suoi sforzi di risocializzazione». 
Incredibile, ma vero. Tanto vero che domani mattina la VI sezione penale della suprema Corte dovrà pronunciarsi su questo ricorso, unico nel suo genere, ma non nelle finalità dichiarate: allontanare il più possibile nel tempo il momento del carcere, nella speranza di farla franca grazie a qualche alchimia giuridica come la prescrizione, l’approvazione di un’amnistia, di un indulto o di una leggina garantista. O, più semplicemente, sparendo dalla circolazione. L’esito di questo ricorso è praticamente scontato; chi lo ha presentato sapeva fin dall’inizio che sarà dichiarato inammissibile dalla Cassazione. Ma il fine giustifica il mezzo. E il fine può dirsi fin d’ora raggiunto, visto che il ricorrente, condannato per spaccio di droga a 3 anni e 10 mesi di carcere, ha già in tasca la libertà perché potrà ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale previsto dalla legge Simeoni, approvata dal Parlamento — neanche a farlo apposta — proprio nelle more del giudizio di Cassazione.
Governo e forze politiche stanno studiando ormai da mesi misure legislative per garantire la sicurezza dei cittadini. A questo proposito, ieri il Procuratore aggiunto di Milano, Gerardo D’Ambrosio, ha ribadito che «è la certezza di subire la pena e non la sua gravità ad essere un deterrente». E la certezza della pena è difficilmente realizzabile, ha aggiunto D’Ambrosio, se, per eseguire una condanna, bisogna aspettare tre gradi di giudizio, se non cinque, sei, sette... Tanto più se l’appello e la Cassazione vengono utilizzati esclusivamente a fini dilatori. Un rischio concreto, come dimostra il ricorso in Cassazione di domani, che ha tuttavia il merito di dichiarare qual è il suo vero obiettivo, senza nasconderlo dietro raffinate quanto improbabili tesi giuridiche che riempiono migliaia di ricorsi per Cassazione aventi il medesimo obiettivo. Il sospetto che, in tutti questi casi, vi sia un uso strumentale delle garanzie processuali è legittimo; ma finché il sistema giudiziario rimarrà strutturato così, i clienti avranno buon gioco a costringere i loro avvocati a seguire strategie difensive dilatorie.
«Era inutile che facessi grandi giri di ipocrisie — spiega l’avvocato Gianfranco Abate, autore del curioso ricorso —. Il mio cliente è venuto da me disperato, chiedendomi di fare assolutamente qualcosa per non fargli perdere la libertà. Come facevo a dirgli: "Vai in carcere", se c’era un modo per dilazionare quel momento? Del resto, lo sanno tutti che la finalità del ricorso in Cassazione è questa, anche se nessuno lo dice». Insomma: guadagnare tempo, nella speranza di beneficiare di qualche modifica legislativa più favorevole. 
Così è stato anche per il cliente dell’avvocato Abate, accusato di detenzione di sostanze stupefacenti a fini di spaccio (i fatti risalgono al ’94). Condannato a 4 anni di reclusione a seguito di giudizio abbreviato, aveva patteggiato in appello per ridurre la pena, scesa infatti a 3 anni e 10 mesi, più 34 milioni di multa. Di fatto, però, gli rimanevano soltanto 2 anni e 10 mesi, avendo già scontato un anno agli arresti domiciliari. Era il 13 marzo del ’98: un periodo in cui si rincorrevano voci di amnistia e di indulto ma, soprattutto, era imminente l’approvazione della legge Simeoni (entrata in vigore l’estate successiva), che avrebbe evitato il carcere (usufruendo di misure alternative) a chi fosse stato condannato, in via definitiva, a una pena inferiore a tre anni di reclusione (anche se residuo di una pena maggiore). Di fronte a queste prospettive, il ricorso in Cassazione, pur in mancanza delle ragioni prescritte dalla legge, è sembrato una via obbligata. Altrimenti sarebbe finito subito dietro le sbarre, salvo, mesi dopo, attivare la procedura della Simeoni per ottenere l’affidamento al servizio sociale. In questo modo, invece, non ha fatto neppure un giorno nelle patrie galere. «Da quando è libero — osserva l’avvocato Abate — il mio cliente ha un lavoro stabile e ha tenuto una condotta irreprensibile. Insomma, ormai riga dritto». 
Se così è, tanto meglio. Il carcere non avrebbe certo fatto di più. Anzi. Ma tanto non basta a giustificare le falle e le contraddizioni di un sistema giudiziario che finisce per rincorrere a vuoto i criminali, alimentando nella gente onesta un forte senso di insicurezza e nei criminali un altrettanto forte senso di impunità. Giorni fa, un magistrato di Torino raccontava di essere stato fermato in Tribunale da un tizio che cercava la Corte d’appello e che gli aveva chiesto: «Scusi, dov’è l’ufficio dove riducono le pene?». Definizione che la dice lunga su come viene percepito l’appello. E chissà se nell’immaginario collettivo la Cassazione è già diventata «l’ufficio dove le condanne arrivano quando ormai non servono più».
Donatella Stasio