Sulle toghe domande che pesano
come macigni
da Il Messaggero del 28.11.99
di ROBERTO MARTINELLI
SI è fatto incandescente lo scontro politico sulla giustizia
e sul ruolo della magistratura. L’opposizione ha alzato il tiro e la polemica
con la maggioranza ha assunto toni mai usati prima. Purtroppo lo spettacolo
cui gli uni e gli altri hanno dato vita è apparso triste e sconsolante.
Assistere ad un confronto tanto aspro all’interno delle Istituzioni o meglio
tra le due anime contrapposte dell’una e dell’altra, lascia perplessi e
induce ad una riflessione. Sarà mai possibile tornare ad una giustizia
capace di non provocare lacerazioni nel Paese ed essere accettata da tutti
come funzione sovrana di un potere dello Stato autonomo e indipendente
creato per assicurare il rispetto della legalità?
Ed ancora: le accuse, non nuove per la verità, ma che questa
volta sono state pronunciate dentro e fuori il Parlamento contro la magistratura
o, meglio, contro una parte di essa, impongono un chiarimento ai massimi
livelli istituzionali.
La tecnica usata finora è stata sempre la stessa: alla protesta
è seguita una reazione a catena che ha prodotto insulti, denigrazione,
minacce. E ogni volta gli uni e gli altri sono caduti nella provocazione.
Esibizionismo da una parte, protagonismo dall’altra non hanno risparmiato
nessuno, con qualche rara eccezione. Ma anche i silenzi, a volte, hanno
fatto la loro parte: sono stati strumentali, ed hanno fatto parte di una
regia accorta. Perché quasi sempre i "no comment" iniziali sono
stati il preludio ad interviste a tutto campo concordate durante la tempesta
e pubblicate dopo.
Il provvedimento del magistrato che ha innescato questa nuova miccia
tra il capo dell’opposizione e la magistratura milanese, e tra i due schieramenti
politici, è il decreto che chiude una delle tante inchieste sulle
presunte corruzioni contestate ai giudici romani. L’indagine si trascinava
da anni e riguarda fatti destinati a cadere in prescrizione. Questa non
è certo una buona ragione per cestinare accuse prima di valutarle
con rigore e obiettività. Resta il fatto che nessuno degli indagati
rinviati a giudizio sconterà un solo giorno di carcere se mai sarà
ritenuto colpevole. Per quanto si voglia o si possa fare in fretta, i tempi
della giustizia italiana non consentono di arrivare alla sentenza definitiva
prima dell’estinzione del presunto reato che sarebbe stato commesso.
Questa circostanza poteva indurre il magistrato ad attendere qualche
giorno e far sì che la sua decisione fosse conosciuta all’indomani
di una consultazione elettorale minore ma molto significativa per la fibrillazione
che caratterizza il quadro politico? I pareri sono discordanti anche tra
i magistrati. C’è chi sostiene che quel giudice avrebbe fatto meglio
a soprassedere e chi invece dice che ha fatto bene ad essere tempestivo
e puntuale. Difficile stabilire da quale parte sia il giusto. C’è
chi sostiene che una qualche cautela forse avrebbe potuto averla se, come
pare, la motivazione che ha portato al rinvio a giudizio è simile
a quella che dieci giorni fa lo stesso magistrato ha usato per il caso
Imi-Sir.
La vicenda presenta parecchie analogie per il semplice fatto che molti
degli imputati sono gli stessi e l’oggetto è la medesima accusa
di corruzione dei giudici romani. In estrema sintesi, il magistrato parte
da una osservazione molto acuta e dice che l’udienza preliminare costituisce
il controllo finale dell’attività investigativa, svolto attraverso
il contraddittorio tra accusa e difesa, per accertare se l’accusa sia sorretta
da quella piattaforma probatoria necessaria a giustificare un pubblico
processo. Poi spiega però che al giudice dell’udienza preliminare
non è consentito assolvere l’imputato per insufficienza di prove
perché ogni dubbio deve essere affrontato e risolto dal giudice
del dibattimento.
L’argomentazione è ineccepibile oltre che encomiabile, ma evidenzia
il dubbio che il magistrato ha avuto nel ritenere davvero quegli imputati
colpevoli. Tanto che ha avuto l’onestà di ammetterlo e dire che
in fondo le persone alle quali fa indossare la veste di imputati sono dei
presunti innocenti. Se è vero, come pare, che egli ha usato la stessa
argomentazione per rinviare a giudizio il capo dell’opposizione, sorge
spontanea la domanda: invece di decidere alla vigilia di una consultazione
elettorale, avrebbe potuto attendere tre giorni? Qualunque sia la risposta,
la sua scelta non è sindacabile da nessun punto di vista in quanto
egli non ha violato alcuna norma né giuridica né deontologica.
La denuncia annunciata nei suoi confronti non ha alcun fondamento.
Resta l’aspetto dell’opportunità della scelta dei tempi nel
decidere il rinvio a giudizio. Sono spaccati i deputati in Parlamento e
l’opposizione parla di intimidazione giudiziaria. Sono sul piede di guerra
i componenti del Csm che chiedono tutela per i giudici di frontiera. Sono
in disaccordo i membri dell’Associazione Magistrati.
Insomma è bufera e si chiede l’intervento del capo dello Stato.
Ma il presidente non ha la bacchetta magica per riportare ordine e compostezza
tra giudici e politici. Prima o dopo, se gli animi non si calmeranno, la
questione finirà davanti all’organo di autogoverno della magistratura.
Ma nel frattempo sarà necessario tentare un’opera di mediazione
se si vuole evitare che Palazzo dei Marescialli viva un’altra inutile giornata
campale. Con la speranza che sia l’ultima e che magistrati e politici raccolgano
l’invito a riflettere sulla necessità di abbandonare i toni della
polemica e, di tornare al geloso reciproco rispetto delle proprie funzioni
e delle proprie autonomie.
ex ministro nella commissione
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