Giustizia, evitare i rischi del pendolo

da Il Sole 24 ore del 28.10.99

Non era difficile prevedere che, dopo la sentenza che ha assolto Giulio Andreotti, ci sarebbe stato un contraccolpo sulla magistratura. Ma ciò a cui si sta assistendo in questi giorni ha assunto un ritmo e, talora, una veemenza tali da far pensare a qualcosa che si situa fra un’offensiva bellica e un regolamento di conti.

Si ha l’impressione che il lungo faccia a faccia tra giustizia e politica, incombente su tutti gli anni Novanta, sia dominato dalla forza irresistibile di un movimento a pendolo. In una prima fase, dai giorni di tangentopoli in avanti, la massa d’urto delle inchieste giudiziarie ha investito i partiti con effetti distruttivi. Oggi, dopo lunghissimi momenti di stallo, il pendolo ha invertito il suo movimento e minaccia di abbattersi sulla magistratura.

Ancora una volta, quindi, c’è la prospettiva di un’emergenza. Era un’emergenza quella degli anni di Mani pulite, allorché l’offensiva dei pubblici ministeri si riversò sulla classe politica, contribuendo alla dissoluzione dei partiti di Governo; ma la logica emergenziale, da autentico stato d’eccezione, si è protratta a lungo, mentre faticosamente la politica ricercava meccanismi (alternanza, sistema maggioritario, ridisegno istituzionale) per ridare affidabilità alla competizione democratica.

Sotto questo profilo, l’immagine di un fronte "giustizialista", a cui si contrappone uno schieramento "garantista", è una semplificazione distorsiva. Giustizialisti e garantisti si trovano dappertutto, nei Poli come nell’ordine giudiziario. È vero, piuttosto, che nel vuoto o nelle incertezze della struttura democratica la giustizia ha ricoperto effettivamente un ruolo politico.

Ruolo che si può sintetizzare sottolineando che proprio in quanto i nuovi partiti non sono riusciti a concludere l’opera di rifondazione della vita pubblica e dell’architettura istituzionale, sulla realtà politica è rimasta l’ipoteca giudiziaria. Proprio perché la transizione dalla Repubblica della proporzionale alla Repubblica del maggioritario non si è completata (il confronto politico non è stato nitido e severo, i vincitori ripetutamente si sono trasformati in sconfitti), sono rimaste in campo molteplici occasioni per l’uso della via giudiziaria al cambiamento politico: con il risultato che le indagini e i processi sul passato sono entrati in aspro attrito con il presente.

La sentenza Andreotti costituisce in ogni senso un punto di svolta. Liquida, per un verso, l’idea di sanzionare un’esperienza politica con un verdetto di Tribunale; ma come si è detto determina anche un vistoso impulso revanscista contro la magistratura. Ora, dire che un Paese moderno non può sopportare una lacerazione permanente tra politica e giustizia ha l’aspetto di un’ovvietà. Ma è una di quelle ovvietà su cui si fonda la convivenza civile: è la base di un rapporto di credibilità e fiducia reciproca tra i cittadini e le istituzioni, e tra le istituzioni stesse; ed è anche la condizione essenziale, fondata su criteri di certezza, per l’azione di Governo a tutti i livelli, per la decenza operativa della pubblica amministrazione, per il dispiegarsi dell’iniziativa privata, per l’agibilità del mercato.

In questo momento, l’offensiva contro la magistratura "politicizzata" è dunque l’altra faccia di una guerra già lungamente guerreggiata. 

Come è possibile, infatti, selezionare le Procure politicizzate da quelle neutrali; i magistrati e i giudici garantisti da quelli giustizialisti? Lo si può fare soltanto mandando il pendolo a colpire gli apparati, snidando le nicchie giudiziarie ritenute ostili, favorendo la nascita di schieramenti in contrasto, cioè approfondendo i conflitti esistenti e provocandone di nuovi.

Occorre fermare il pendolo, ritrovare un equilibrio. È un’indicazione vana se si limita all’auspicio di una pacificazione: tutti gli scetticismi sono naturali di fronte al wishful thinking della capacità di autoregolazione delle parti in causa. Toccherebbe, invece, ancora una volta agli schieramenti politici produrre uno sforzo riformatore: perché la politica ha effettivamente un primato, che dev’essere esercitato per fissare le regole e assicurare l’efficacia delle procedure. Equilibrio fra difesa e accusa, terzietà del giudice, distinzione o separazione delle carriere dei pubblici ministeri da quelle dei giudici: tutto può essere posto in discussione, superando le difese settoriali, gli ideologismi corporativi, il totem politico della magistratura come custode della virtù. A patto, però, che l’obiettivo centrale sia quello di restituire alla giustizia la dimensione istituzionale che le compete, un’autonomia senza residui, una quota significativa di prevedibilità ed efficienza.

E infine: si capisce che riforme di questo tipo non si fanno a colpi di maggioranza. Né oggi né domani. La giustizia non è una prerogativa di questo o di quello schieramento, della destra o della sinistra. Solo un impegno condiviso dalle parti politiche può condurre a risultati accettabili. Ecco, allora, che forse le domande potrebbero diventare meno retoriche: c’è ancora uno spazio per ricercare un accordo? C’è una residua volontà spendibile? Esisterà, perlomeno, la consapevolezza che senza un’iniziativa consistente c’è il rischio di uno sfaldamento istituzionale e di varie Caporetto politiche? Se non si è capaci di rispondere positivamente a queste domande, il destino è già ampiamente scritto: con la guerra di tutti contro tutti, in una logica di ritorsioni incrociate e con l’intera collettività civile priva tanto di garanzie quanto di giustizia.

Edmondo Berselli