“Referendum bocciato”, è giallo 

da La Stampa del 29.12.98

ROMA. I referendari, furiosi, partono all’assalto del Quirinale, sospettato (a causa di una indiscrezione giornalistica) di premere sulla Corte Costituzionale perché dica no alla consultazione popolare. Il presidente della Repubblica, cauto, smentisce le indiscrezioni cercando di spegnere sul nascere un incendio che rischiava di coinvolgere il governo e non solo. Scalfaro, infatti, non può correre il rischio che si annebbi la sua credibilità di Capo dello Stato al di sopra delle parti, nel momento in cui aspira ad essere rieletto.
La miccia l’aveva accesa ieri il settimanale Panorama che, riferendo indiscrezioni attribuite ad un consigliere di Scalfaro, ha detto che il Capo dello Stato ha invitato a cena alcuni giudici della Corte Costituzionale per chiedere che venga respinto il referendum proposto da Segni. 
Era la “prova” che i referendari aspettavano per scendere sul sentiero di guerra.  Abbandonato l’umore euforico di lunedì scorso, quando dettero una dimostrazione di forza schierando fianco a fianco i disparati capi referendari (Veltroni-Fini-Prodi-Segni-Di Pietro), nei giorni scorsi i sostenitori del referendum sono apparsi sempre più preoccupati. 
Perché hanno visto che il fronte opposto, spaventato alla vista di quello schieramento insolito, ha cominciato a organizzarsi nel timore di più rivoluzionari sviluppi. L’indiscrezione sulle mosse di Scalfaro è stata colta come l’attesa conferma dei sospetti covati.
Arrivano, così, le rumorose proteste dei referendari. Con la presentazione di interrogazioni al presidente del Consiglio perché chiarisca cosa c’è di vero nelle voci messe in giro su Scalfaro. Proteste che arrivano da An, dalla pattuglia di referendari di Forza Italia, da Achille Occhetto. E da nessun altro.  Ed è questa la vera notizia. Perché tacciono i dirigenti di Forza Italia, si tirano cautamente da parte quelli del Ccd (“non ci facciamo trascinare in polemiche che riguardano eventuali orientamenti della Corte”, dice D’Onofrio). E fanno finta di nulla, imbarazzati, i dirigenti dei democratici di sinistra. Che, a pieno titolo, sono schierati per il referendum.
Il segretario Veltroni non è a Roma, ma parla Cesare Salvi, presidente dei senatori Ds, che nei giorni scorsi si è distinto per le posizioni dure verso i popolari, quando si è discusso di riforma elettorale. Tanto dure che il Ppi l’ha presa male, al punto di minacciare ripercussioni sul destino del governo D’Alema.  Ebbene, il Cesare Salvi post-natalizio è più morbido del previsto. Ora, per lui il referendum “è solo uno stimolo” e “non può essere un fine”. E spiega che i partiti della maggioranza dovranno eleborare un progetto comune, nel caso si tenesse il referendum, per allargare poi il confronto all’opposizione.
Insomma, l’impressione è che i dirigenti di base diessini non abbiano digerito la visione del loro segretario seduto accanto a Gianfranco Fini. “Io giro il Paese - testimonia Renzo Lusetti, del Ppi - ed ho constatato che i diessini sono turbati.  Hanno preso l’accoppiata Fini-Veltroni come una sorta di consociativismo alla rovescia. E non gli è piaciuto”.
Gli alleati di governo stanno a guardare interessati a quel che avviene tra i ds, che poi vuol dire, tra Veltroni e D’Alema. “Il cerino del referendum e di tutto quel che ne consegue, se lo stanno scambiando velocemente di mano Veltroni e D’Alema - sostiene Angelo Sanza, dell’Udr -. O Veltroni la smette con gli atteggiamenti ulivisti che gli suggeriscono, anche sul referendum, Prodi e Di Pietro, o D’Alema fa flop”. 
Il referendum, infatti, è una sola delle pedine del grande gioco che si sta impostando per il 1999. Tutto è collegato: col referendum si decide se lasciare spazio o no allo sviluppo di un grande partito di centro, col nuovo Presidente della Repubblica si sceglie il garante di possibili nuovi (o vecchi) equilibri politici, con le elezioni europee si definiscono gli schieramenti politici del futuro.  Un grande gioco che non ha ancora attori protagonisti. Silvio Berlusconi esita, non si è schierato per il referendum, è interessato a vedere se si può approvare una riforma elettorale subito, così come la riforma della giustizia. Preoccupati, gli uomini di An lo tirano per la manica (Maceratici), esortandolo a decidersi ad appoggiare il referendum. D’Alema è a Palazzo Chigi e non può prendere posizione, anche se il rererendum sta rivelandosi per lui solo una fonte di guai.  Ecco perché si muove un battitore libero come Francesco Cossiga, che presenta una proposta di legge per l’elezione diretta del Capo dello Stato. Un modo per alleggerire la tensione che grava sulla legge elettorale (invisa ai popolari), indicando un obiettivo che i popolari avevano cominciato a prendere in considerazione, e che dovrebbe piacere al referendario Fini. 
Alberto Rapisarda