Authority nemici vecchi e nuovi
da Il Messaggero del 17.11.99
di PAOLO GLISENTI
SIAMO ad un punto di svolta oltre il quale si capirà se il tortuoso
processo di ridefinizione dei poteri dello Stato, in corso da almeno un
quinquennio, può dirsi già arrivato al capolinea. Che tiri
una brutta aria lo si vede dalla guerra strisciante che partiti, enti pubblici
e giudici amministrativi conducono ormai ogni giorno, impunemente e talvolta
con incredibile prepotenza, alle Autorità di garanzia le quali,
per legge, dovrebbero poter vigilare in perfetta autonomia sui comportamenti
delle società che erogano servizi di pubblica utilità e sul
rispetto dei diritti degli utenti.
L’Autorità per l’Energia vorrebbe imporre all’Enel di ridurre
le tariffe elettriche e la bolletta, che fa?, rincara. Nuovi operatori
invocano il diritto a portare servizi di comunicazione direttamente agli
utenti? L’Autorità competente rinvia la liberalizzazione della telefonia
urbana, impedendo loro di avvicinarsi alle case allacciate a Telecom. L’elenco
è lungo. I tanti “cartelli" della distribuzione — a cominciare da
quello dei benzinai — e gli innumerevoli ordini professionali sorti sul
modello corporativo dell’epoca fascista che fanno dell’Italia un caso oggi
unico al mondo di arretratezza e illiberalità, rifiutano il sia
pur minimo grado di apertura alla concorrenza. Regioni ed enti locali,
facendo venire a mancare le necessarie autorizzazioni urbanistiche, bloccano
il riordino degli esercizi commerciali, sancito per legge dal Governo.
Il 90% degli atti dell’Antitrust vengono regolarmente impugnati davanti
al Tar del Lazio che ne sospende, spesso sbrigativamente, l’efficacia e,
visti i tempi tecnici richiesti per arrivare al giudizio di merito, ne
annulla di fatto la validità. Casi palesemente documentati di pratiche
lesive della concorrenza vanificati in pochi minuti per presunte insufficienze
delle istruttorie condotte per mesi o anni addirittura dall’Autorità.
I segnali di una vera e propria ribellione sono ormai tanti, troppi
per non temere che il processo delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni
deciso all’inizio degli Anni 90 possa bloccarsi. La ragione è semplice:
nessuno — né il Parlamento né la giustizia ordinaria — accetta
di vedersi sottrarre le vaste aree di potere che erano loro accordate nella
gestione dello sconfinato ruolo dello Stato nell’economia produttiva e
nei servizi. Fin tanto che da Bruxelles sono venuti insistenti spinte a
favorire una rapida apertura al mercato ed alla libera concorrenza, il
processo di riforma è sembrato in qualche modo procedere. Ora che
quella spinta, forse per effetto dell’appannamento dell’ultima Commissione
europea dissoltasi negli scandali, pare essersi affievolita, la velocità
della fase di modernizzazione è fortemente rallentata.
Si dice da più parti che le Autorità di garanzia sono
troppe (11 sino ad oggi, ma altre potrebbero nascere in futuro), che i
loro organici sono irragionevolmente pesanti, che i quadri dirigenziali
percepiscono retribuzioni eccessivamente alte. Un vero e proprio contropotere
che finirebbe per invadere indebitamente il campo d’azione dello Stato
sino a prevaricarne il ruolo istituzionale? Un pericolo tecnocratico per
la democrazia? In realtà, il problema sembra essere di segno opposto.
Le Autorità istituite in Italia sono certamente molte, poiché
vastissima era l’area del monopolio pubblico che in poco tempo doveva essere
aperta alla concorrenza, ma mancano spesso di sufficienti poteri e competenze
perché possano efficacemente far rispettare anche soltanto le norme
antitrust impartite dell’Unione Europea. Basta contare gli oligopoli semi-pubblici
e i monopoli di fatto che tuttora resistono all’intervento regolatore delle
Autorità: le assicurazioni, il gas, l’energia, l’acqua, la televisione,
i servizi urbani di prima necessità, i trasporti. E che dire della
Borsa sulla quale vigila da tempo la Consob, regina delle Autorità
indipendenti di garanzia del nostro Paese, e che resta uno dei mercati
azionari meno trasparenti e meno professionalizzati nel mondo? Oppure delle
banche il cui operato rimane territorio esclusivo della Banca d’Italia,
caso unico nel quale le si sottrae ad una vigilanza del tutto indipendente
dalle prerogative del suo controllore diretto?
Problema di non facile soluzione, come si vede. Alcuni sostengono il
principio dell’insindacabilità delle decisioni delle Autorità;
altri hanno lanciato l’idea di una Corte di giustizia speciale; altri ancora
dicono che varrebbe la pena seguire il modello americano dove l’Antitrust
non giudica, ma svolge il ruolo di pubblico ministero. Fatto sta che se
l’opinione generale sulle privatizzazioni non è oggi univoca lo
si deve anche alla grande confusione che regna sui meccanismi di controllo
e di vigilanza. Pasquale Saraceno, che pure fu negli Anni 60 tra i padri
dell’intervento pubblico, sosteneva che «in un’economia di mercato
non è tanto lo smobilizzo dei beni di produzione che deve essere
politicamente giustificato ma il non smobilizzo». Forse basterebbe
richiamarsi a quelle sue osservazioni di buon senso per capire quale è
il nostro vero problema. Cioè che di privatizzazioni vere e proprie
— cioè di effettivi passaggi della proprietà di controllo
in mani private — ne è stata fatta una sola, quella della Telecom,
e che meno di un quarto della nostra economia è realmente aperta
alla concorrenza. Su tutto il resto lo Stato, a ben vedere, continua a
farla da padrone.
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