Giudice
si spara in tribunale “Troppe cause, mi arrendo”
da La Repubblica del 20.1.99
di MARCO TRAVAGLIO
TORINO - “Caro Alberto, chiedo scusa a te, alle ragazze, a tutti. Non
fatevi assurdi sensi di colpa. La mia decisione la capirete dai miei fascicoli,
accatastati sul mio tavolo, negli armadi del mio ufficio. Ormai è
una valanga che ci sommerge tutti, e io mi sento sopraffatta, impotente,
sconfitta. Non ce la faccio più ad arrestare la valanga, a mani
nude. Ormai mi ha travolta, non riesco neppure a fare le cose che prima
potevo, che ancora potrei fare. Addio...”.
Si è arresa, il giudice Gabriella Lo Moro, “Oretta” per gli
amici. Si è arresa a 56 anni, nel suo ufficetto fatiscente al terzo
piano del Tribunale civile di Torino, in via delle Orfane 18. Si è
arresa sotto il peso delle migliaia di fascicoli, nuovi e arretrati, che
incombevano sul suo capo anche fisicamente, in quella soffocante stanzetta
della seconda sezione, quella delle “Esecuzioni immobiliari”, in un palazzo
vecchio e vergognoso che attende da dieci anni la demolizione e il trasloco
nel nuovo Palagiustizia eternamente incompiuto. Si è arresa a una
giustizia impossibile che le ha rubato prima il tempo libero e le vacanze,
poi la salute, infine la vita.
Si è arresa con due colpi di pistola alla tempia, alle 16.30
di ieri, dopo aver scritto con mano ferma sette lettere e averle infilate
una per una in sette buste bianche indirizzate ai parenti più cari
e sistemate ordinatamente l’una sull’altra al centro della sua scrivania,
nel poco spazio lasciato libero da tante, troppe pile di fascicoli.
La prima lettera era per “Alberto”, il marito: Alberto Oggè,
60 anni, un tempo giudice istruttore e poi Gip a Torino, da cinque anni
procuratore capo a Novara, oggi in attesa di tornare a Torino alla terza
sezione della Corte d’Appello, dove lo attende il processo di secondo grado
a Cesare Romiti e Francesco Paolo Mattioli per i falsi in bilancio della
Fiat. “Un fuoriclasse delle investigazioni”, per i suoi colleghi, che lo
chiamano “il Principe”. Il giudice che risolveva i casi impossibili, dagli
omicidi ai fallimenti, e che a Novara aveva scoperchiato la Tangentopoli
locale, tra politici e ufficiali delle Fiamme Gialle corrotti.
Era in ufficio a Novara, ieri pomeriggio, quando l’amico Marcello Maddalena,
procuratore aggiunto a Torino, gli ha telefonato la notizia che mai avrebbe
voluto dargli: “Oretta è morta”.
Pochi minuti prima, due colpi di pistola avevano squarciato il silenzio
del Tribunale civile. La prima ad accorrere, nell’ufficio di Gabriella
Lo Moro, era stata una donna delle pulizie. Poi le segretarie e i colleghi
della seconda sezione, tutti al loro posto: Paola Dezani, Alfredo Grosso,
Giovanni Liberati, Mario Silvestri.
Mancava solo il presidente, Piercarlo Premoselli: è reduce da
una grave malattia, e la Lo Moro aveva preso il suo posto, ad interim.
Anche lei stava per essere trasferita in Corte d’Appello, insieme al marito.
Tutto inutile. Il corpo minuto di Oretta è steso accanto alla
scrivania, senza vita. A sfiorare la mano, una pistola, sottratta in mattinata
al marito. Accorrono magistrati da tutte le sedi giudiziarie (a Torino
sono 21, sparse per il centro-città). Maddalena col procuratore
capo Francesco Marzachì. Il procuratore generale Antonino Palaja.
Il presidente del Tribunale Mario Garavelli. I colleghi del
tribunale e gli ex compagni di lavoro alla Pretura civile, dove aveva
iniziato la carriera, facendo anche saltuariamente il giudice tutelare.
E poi i Carabinieri, la Scientifica per i “rilievi del caso”, il medico
legale per “constatare il decesso”. E i parenti. Il marito si precipita
da Novara, arriva tardi, lo convincono a non salire. Bisogna ancora avvertire
una delle due figlie (studiano all’università): saprà tutto
soltanto in serata, rientrando a casa. “Non c’è alcun mistero, purtroppo
il gesto e il movente sono chiari”, dice Maddalena, sconvolto.
“Oretta non viveva più, il lavoro la divorava”, mormora Oggè,
“nell’ultimo anno non aveva fatto nemmeno un giorno di ferie. Era sempre
lì a lavorare, a motivare e scrivere sentenze. Anche a Ferragosto.
Anche il sabato. Anche a casa, la sera...”.
“Era depressa, stressata, travolta dal troppo lavoro”, piangono i colleghi,
“ma si teneva tutto dentro”. “L’avevo vista il giorno prima: estroversa,
cordiale, allegra come sempre. Nulla che facesse pensare...”, dice un pm.
“Anche oggi (ieri, ndr) aveva lavorato fin dall’alba: analizzato fascicoli,
controllato pratiche nel computer portatile, scritto sentenze. Si occupava
soprattutto di esecuzioni immobiliari, migliaia di dossier sempre arenati
per la crisi del mercato della casa”, racconta la segretaria della porta
accanto. “Un giudice serio e scrupoloso, una lavoratrice incredibile”,
le
rende omaggio Gian Paolo Zancan, presidente dell’Ordine degli avvocati
torinesi. Di più nessuno vuol dire, nessuno sa dire. Perché
il giudice Gabriella Lo Moro non “frequentava”. Non si metteva in mostra.
Chi la cercava sapeva dove trovarla: in quell’ufficetto sbrecciato al terzo
piano del
Tribunale, china sul computer, sotto quei fascicoli. Sotto quella valanga.
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