Il
secolo del Grande Fratello
da La Repubblica del 20.1.99
di STEFANO RODOTÀ
La tecnologia sta uccidendo la privacy? Questo è il dubbio
con il quale ogni spettatore lascia il cinema dopo aver visto il film “Nemico
pubblico”, che racconta gli intrighi di una super-centrale di spionaggio
nell’America di fine millennio. Ed è un dubbio reale perché,
a parte le esasperazioni a fini di spettacolo, non è infondata la
rappresentazione delle diverse tecniche di sorveglianza delle persone,
attraverso il controllo satellitare o l’incrocio delle informazioni conservate
nelle banche dati.
Si tratta, peraltro, di preoccupazioni non nuove.
Esattamente un anno fa, l’ufficio per la valutazione delle scelte scientifiche
e tecnologiche del Parlamento europeo (Stoa) aveva pubblicato un rapporto
sulle “tecnologie del controllo politico”, in cui vengono appunto analizzati
i diversi modi in cui soggetti pubblici e privati possono esercitare una
sorveglianza continua e capillare su tutti i cittadini, con riferimento
anche a quella National Security Agency che compare nel film.
MENTRE ci interroghiamo sul destino della privacy, in realtà
ci stiamo chiedendo quale sia il futuro della stessa democrazia.
La frase forse più rivelatrice del film è quella in cui
si dice: “La privacy? È morta trent’anni fa. L’unica privacy è
quella nella tua testa, e forse neanche quella”. Se questo fosse vero,
dovremmo concludere che i nostri regimi politici conservano le apparenze
della democrazia, ma stanno assumendo i tratti dei regimi autoritari. Proprio
questi regimi, infatti, confinano la libertà nella coscienza individuale,
sottoponendo ogni atto o comportamento delle persone a un implacabile scrutinio
pubblico.
È vero, peraltro, che neppure la sfera più intima è
ormai al riparo dalle invasioni. Vengono pubblicizzati programmi che analizzano
ogni minima inflessione della voce per stabilire se si stia dicendo la
verità. Grazie all’analisi computerizzata delle espressioni del
volto, di ogni movimento dei muscoli facciali con il “Facial Action Coding
System”, si cerca di arrivare ai moti dell’anima, alla dimensione più
nascosta della persona. Ha notato giustamente Alberto Oliverio: “Un secolo
fa, nel sottolineare il ruolo dell’inconscio, Freud notò che l’io
non era più padrone in casa propria: oggi si può affermare
che la sua privacy viene minacciata dai nuovi programmi informatici in
grado di smascherare la veridicità delle nostre espressioni, di
andare oltre la facciata dietro cui nascondiamo i nostri sentimenti”.
Riflettere su questi fatti e queste tendenze non è cedere all’allarmismo.
È avviare una consapevolezza sociale su fenomeni e tendenze che
già stanno cambiando la nostra società. In questo senso,
film come “Nemico pubblico” possono avere benefici effetti per almeno due
ragioni: perché danno una visione diretta degli usi possibili di
alcune tecnologie; perché confermano l’importanza delle norme a
tutela della privacy, la cui importanza sociale va ben al di là
di qualche fatterello di cronaca. Solo partendo da questa consapevolezza
è possibile impostare strategie capaci di contrastare gli effetti
negativi di molte delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Per arrivare a questo risultato, è indispensabile una conoscenza
puntuale delle diverse tecnologie, una analisi dettagliata delle loro possibili
conseguenze. Solo così, peraltro, è possibile sfuggire ai
dilemmi, sovente ricattatori, tra riservatezza e lotta al crimine, tra
un’ assoluta trasparenza amica della legalità e un’opacità
appannaggio dei soli criminali. Solo così ci si può liberare
dell’incubo del Panopticon, del Grande Fratello di Orwell e del Mondo Nuovo
di Huxley. Ed è bene che questa discussione sia fatta subito e pubblicamente:
in Italia siamo specialisti nella consapevolezza del giorno dopo, nella
chiusura della stalla a buoi scappati.
Sappiamo ormai tutti come la nostra giornata possa essere segnata da
continue “tracce elettroniche”, che qualcuno segue implacabilmente. Lasciamo
tracce adoperando una carta di credito, telefonando, facendo un’operazione
bancaria, frequentando uno dei luoghi sottoposti a videosorveglianza. Una
rete elettronica a maglie sempre più fitte avvolge le nostre società,
per ragioni di sicurezza, per le esigenze del commercio. E questo avviene
perché le tracce non vengono solo seguite e registrate, ma conservate,
così che può essere accertato dove ci si trovava in un determinato
momento, a chi si è telefonato, di quali risorse finanziarie si
dispone, quali gusti e preferenze riveliamo attraverso gli acquisti. Quest’opera
di sorveglianza non è fine a se stessa. Si traduce anche in una
classificazione altrettanto capillare di persone, famiglie, gruppi.
Vi sono certamente anche vantaggi in questo nuovo modo di organizzarsi
della società. La carta di credito ci libera dai rischi del portar
denaro contante, semplifica le più diverse forme di pagamento. La
rilevazione delle preferenze dei consumatori consente una maggior rispondenza
dell’offerta ai gusti, una “personalizzazione” della stessa produzione
di massa. La conservazione di tabulati telefonici può favorire la
lotta al crimine, sempre più impegnativa e difficile nelle nostre
organizzazioni sociali. La videosorveglianza può garantire una attenzione
continua per tutto ciò che accade in una corsia d’ospedale.
Questo vuol dire che non può nemmeno essere tentata un’analisi
costi/benefici, una ponderazione dei vantaggi con i rischi? Di nuovo le
immagini di “Nemico pubblico” possono aiutarci a cercare una risposta.
Per quali fini vengono raccolti i dati? Come vengono utilizzate le informazioni?
Chi può servirsene? Quali controlli sono possibili?
Anche qui le conclusioni del film possono indurre al pessimismo. Si
parla di un’alleanza tra politici autoritari e servizi segreti deviati,
ci si interroga sull’ efficienza dei controlli: chi controllerà
i controllori?
Non sono questioni per noi lontane, alle quali si possa sfuggire. Lo
scorso anno sono stati registrati in Italia i dati di più di 14
miliardi di telefonate in uscita, che dicono chi ha chiamato, da dove lo
ha fatto, a che ora, chi sia stato chiamato. Questi dati sono conservati
per almeno 5 anni: 75 miliardi di chiamate che possono essere rintracciate
in ogni momento, consentendo certo la individuazione di criminali, ma pure
la ricostruzione minuziosa dell’intera rete di relazioni personali e sociali
di qualsiasi cittadino italiano. La videosorveglianza si espande, è
già presente in banche, supermercati, stazioni, metropolitane, strade,
stadi. Il pur fuggevole passaggio di ciascuno di noi può essere
facilmente rintracciato quando si usano tecnologie digitali. E questi fenomeni
fanno sorgere inquietudini ben maggiori di quelle suscitate dal crescere
del numero delle intercettazioni telefoniche.
Di fronte a questa realtà non credo che l’unica reazione possibile
sia quella di un’accettazione acritica, quasi una resa, a una società
ormai inevitabilmente trasparente.
Davvero la rappresentazione della società del futuro può
essere solo quella del supermercato totale e della militarizzazione anticrimine?
Se si accetta passivamente questa logica, divengono illusorie o contraddittorie
le strategie di tutela affidate soltanto a un difficilissimo controllo
successivo dei raccoglitori delle informazioni, ormai in possesso di un
potere capace di condizionare le stesse reazioni sociali.
Bisogna muoversi in altre direzioni. Si tratta, in primo luogo, di
circoscrivere allo stretto indispensabile la raccolta legittima delle informazioni.
Le democrazie vivono anche di misura e sobrietà. Nei regimi totalitari
la criminalità è meglio controllata: ma il prezzo è
il sacrificio della libertà di tutti. Non è possibile,
dunque, superare questa soglia, l’analisi dei costi e dei benefici esige
sempre che sia seguito il criterio della salvaguardia della logica democratica.
È necessario, quindi, uno stretto rapporto tra dati raccolti
e finalità perseguite. La raccolta delle informazioni dev’essere
mirata, non può essere considerata come una rete gettata nel gran
mare della società per catturare qualsiasi pesce. Talune informazioni,
i cosiddetti “dati sensibili” (salute, opinioni politiche o religiose,
appartenenza etnica, abitudini sessuali), esigono garanzie particolarmente
severe. E tutti i cittadini devono essere dotati di un reale potere di
controllo su chiunque tratti informazioni, senza ostacoli o “santuari”
protetti.
Questi sono, a ben guardare, i principi già indicati da una
direttiva europea, e resi operanti in Italia da quella legge sulla privacy
che qualcuno, ignaro evidentemente del mondo in cui vive, ritiene un inutile
marchingegno. Ma oggi non si tratta soltanto di dare piena attuazione a
una legge che già esiste. Bisogna svilupparne la logica, anche con
severità, estenderne l’applicazione, adattarla ai settori dove l’
innovazione tecnologica è più impetuosa.
Non è un’impresa facile perché le spinte del mercato,
le paure sociali, l’immaterialità delle stesse tecnologie non favoriscono
la consapevolezza piena dei rischi di una costruzione sociale autoritaria.
Intanto, ben venga tutto ciò che stimola una discussione comune.
Come sempre, il vero “nemico pubblico” è l’ignoranza, buona compagna
della rassegnazione.
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