I
giudici: quesito chiaro stavolta si sono fatti furbi
da La Repubblica del 20.1.99
di LIANA MILELLA
ROMA - La tensione e i battibecchi della sentenza sul 513 sono stati
solo un pallidissimo ricordo. Allora, due mesi fa, sembrava che stesse
cadendo il mondo, dentro e fuori la Corte. Stavolta, invece, le preoccupazioni
erano soltanto al di fuori del palazzo. Loro, all’interno, erano tutti
e 15 molto tranquilli. Se c’era voluta più di una settimana per
sbrogliare la matassa del 513, ieri è bastata una sola giornata.
Anzi, di meno. La seduta è cominciata regolarmente alle 9 ed è
proseguita fino alle 13. Poi il lungo, abituale break. Alle 17 la ripresa.
Pochi minuti dopo le 19,30 era già tutto finito. L’ufficio
stampa, retto dal solerte Mario Bimonte, era già stato allertato
dalla metà del pomeriggio. Ed era pronto per rendere nota una decisione
presa a tamburo battente, ma tale da poter incidere profondamente sul quadro
politico. La sentenza era: referendum ammissibile.
Che l’orientamento fosse questo s’era già capito prima del pranzo.
Inequivoca la relazione di Riccardo Chieppa conclusa con un sì.
Senza dubbi o esitazioni. Il primo giro di interventi confermava l’impressione.
Il secondo la radicava in modo definitivo. Praticamente tutti favorevoli,
una maggioranza larghissima. Quanti per il sì, quanti per il no?
La segretezza delle sedute imporrebbe di non divulgare il dato, ma qualcuno
sussurra che i sì siano stati addirittura 14 e uno solo quello contrario.
È stato un “sì scontato” dice un giudice. Una “via obbligata”
si lascia scappare un altro. “Non poteva che andare così” commenta
il terzo, che si fa anche una gran risata pensando alle polemiche e alle
illazioni dei giorni precedenti. “Ma quali pressioni politiche, suvvia
- bisbiglia il nostro interlocutore -. Su che cosa avrebbero dovuto
premere? La Consulta s’era data dei criteri rigidi in fatto di referendum,
che sono stati applicati”.
È stato così facile che, a tempo di record, la sentenza
sarà già pronta per la prossima settimana. La scriverà
Chieppa. Sarà una motivazione breve. Che spiegherà
gli scarni retroscena della decisione. I giudici hanno deciso partendo
dai referendum precedenti. Quattro casi, quattro voti differenti. La sentenza
47 del 1991: era il referendum Segni sui voti plurimi di preferenza. Poi
la 32 del 1993, proponente ancora Segni, sul sistema elettorale del Senato.
La 5 del 1995 e la 26 di due anni dopo sulla quota proporzionale del 25%
per Camera e Senato proposto da Pannella e bocciato. Per un semplice motivo.
Si trattava di un quesito “omogeneo, chiaro, univoco”, ma a cui mancava
un fondamentale requisito: se fosse stato approvato ci sarebbe voluta una
legge per ridisegnare i collegi. Mancava, in pratica, la cosiddetta autoapplicabilità.
Se la Corte avesse detto sì, immediatamente si sarebbe determinato
un vuoto legislativo.
“I nuovi referendari si sono fatti furbi” hanno commentato più
volte i giudici in questi giorni. Perché il nuovo referendum aveva
tutte e quattro le caratteristiche. I quesiti erano “omogenei, chiari,
univoci”. E la disciplina destinata a rimanere in vita non comportava un
intervento legislativo. E quindi ieri uno dei 15 giudici poteva commentare:
“Avete visto? La Corte, tanto criticata, non ha adottato alcun criterio
politico. Ma semplicemente dei parametri tecnici”. E adesso cosa dovrà
fare il Parlamento? Il giudice se la ride:
“Di questo non ci dobbiamo far carico noi. Spetta a loro”.
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