Lezioni di diritto

da Il  Messaggero del 20.6.98

di NAPOLEONE COLAJANNI
DUE avvenimenti hanno marcato a breve distanza di tempo la vicenda giudiziaria di Mani pulite: il deposito della sentenza della Corte di Cassazione che annulla la sentenza della Corte di Appello che confermava la condanna di Bettino Craxi, e la decisione del Tribunale di Milano di accogliere in parte l’istanza dei legali della Fininvest e di annullare parzialmente il processo a carico di Berlusconi per la All Iberian, per la mancanza di un atto dovuto, la notifica alla Fininvest perché potesse eventualmente costituirsi parte civile.
Di tutte e due le decisioni non va sottovalutata l’importanza. Innanzitutto perché esse vengono dall’interno della magistratura, da un esercizio della giurisdizione, e nessuno può attribuire a pressioni politiche questi fatti. A quanti hanno protestato, qualcuno pacatamente, qualcuno esagitatamente come certi adepti del culto delle manette, sostenendo che le due decisioni si inseriscono in un clima di rivincita verso il Pool di Milano, va fatto osservare che non si possono usare certi argomenti a senso unico e soltanto quando fa comodo. 
Una parte della magistratura, a cominciare dai maggiori esponenti del Pool e non escludendo vertici dell’organizzazione rappresentativa dei magistrati, si è impegnata esplicitamente per influenzare l’opinione pubblica e creare un certo clima. Basti ricordare i ripetuti interventi di Ilda Boccassini, Francesco Greco e Gherardo Colombo, per non parlare delle grevi cadute di stile di Piercamillo Davigo. Si sono assunti così delle responsabilità pubbliche, cosa che hanno tutto il diritto di fare, ma non possono sottrarsi al giudizio di quanti hanno lo stesso loro diritto ad esprimersi. Se poi l’opinione pubblica comincia a comprendere le ragioni dei critici del Pool è segno che qualcosa va cambiando, rispetto ai tempi in cui fare un’osservazione a Di Pietro era come parlare male di Garibaldi. Per non restare prigionieri di tali diatribe non c’è che da riflettere sui fatti.
Con la decisione del Tribunale di Milano la posizione di Silvio Berlusconi non c’entra per nulla. Quella non poteva essere diversa per qualsiasi altro imputato. La decisione sarebbe di ordinaria amministrazione se un pubblico intervento di Francesco Saverio Borrelli non l’avesse trasformata in una questione di principio. Il procuratore di Milano infatti ha ritenuto «abbastanza singolare che la Fininvest proclami di non essere stata in condizione di costituirsi parte civile» dato che «tutta l’Italia, probabilmente tutta l’Europa, sapeva del processo. L’unica a non sapere nulla era la Fininvest». Va detto in tutta chiarezza che questa affermazione è assai
grave. E’ verissimo che quello dei legali di Berlusconi è stato un cavillo, ma tutti sanno che sono innumerevoli i processi vinti con argomenti di procedura. Il dovere di un giudice e di un procuratore è di osservare la lettera della legge, e cercare di far credere all’opinione pubblica che la lettura dei giornali possa sostituire un atto obbligatorio di un magistrato è un comportamento inaccettabile. La lettera della legge va rispettata, naturalmente può essere interpretata, ma nel caso in questione non c’è niente da interpretare. Che un procuratore, importante o no, ironizzi su queste cose è francamente inaccettabile. 
Bene ha fatto quindi il Tribunale di Milano ad accogliere l’eccezione; quanto alla divisione in due del processo procedendo per il finanziamento ai partiti e ricominciando per la corruzione, si tratta di questione che potrà essere affrontata nel dibattimento e risolta sul terreno della procedura. 
Anche la sentenza della Cassazione pone una questione di principio, ed è il valore della prova. Che Craxi non potesse non sapere, e che per questo e solo per questo doveva essere perseguito, è scritto in tutte lettere nelle richieste di autorizzazione a procedere avanzate alla Camera dei deputati dalla Procura di Milano. La Cassazione ha affermato il principio che bisogna in ogni caso provare che l’imputato fosse a conoscenza dei fatti e fosse corresponsabile di comportamenti illegali e che la relativa prova in questo caso manca del tutto. Si afferma così un principio che l’opinione pubblica spesso trascura, e cioè che le deduzioni non sono prove e che l’onere di queste spetta al pubblico ministero. Questo è alla base del processo accusatorio e dobbiamo tenere ben fermo il principio, altrimenti si finisce per cadere nella cultura del sospetto e non si pone limite alle possibilità di arbitrio. E’ curioso che gli oppositori
della separazione delle carriere agitino lo spettro del pubblico ministero-poliziotto e non dicano niente sul fatto che il processo inquisitorio in cui il pm accusa e l’onere della prova ricade sull’imputato, porta tutte le stigmate dell’inquisizione poliziesca.
In realtà ci siamo imbattuti in due questioni fondamentali per la difesa dello Stato di diritto. Che i due fatti siano segnale di un certo modo di comportarsi è possibile ed è cosa che deve anch’essa fare riflettere. E qui si pone la questione di quello che Governo, Parlamento e Consiglio superiore della magistratura fanno per uscire da questa situazione. Nei casi in esame non si tratta di fare nuove leggi ma di farle rispettare. Chi ha mostrato disinvolture eccessive, per non dire altro, nell’osservanza delle procedure, deve sapere che deve rispondere di questo, s’intende nei modi stabiliti dalla legge.