Pentitismo e prova

da La Gazzetta del Sud del 20.5.99

Giuseppe Nàccari 
C hiusa velocemente e inaspettatamente nel miglior dei modi la vicenda per l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica, riprende la normale attività politica bloccata negli ultimi tempi per via di tale importante avvenimento. Sono certamente rimasti dei dissapori in seno alla maggioranza, che si avvertono nelle dichiarazioni dei vari leader, ma al momento non dovrebbero esserci dei contraccolpi, dato che ci attende un altro importante appuntamento: le elezioni per il Parlamento Europeo. È di qualche giorno fa l'intervista rilasciata dal ministro di Grazia e Giustizia, Oliviero Diliberto, a un quotidiano sui problemi della giustizia e più esattamente sui mali della giustizia. Un primo argomento trattato è quello del processo giusto per via del contestato art. 513 c.p.p. che, a dire del ministro, va costituzionalmente garantito. «Sì – ha detto il ministro – l'acquisizione della prova in contraddittorio, c'è chi dice che già si ricava dalle leggi attuali. Ma io dico è meglio abbondare». Rilevante è anche un altro problema affrontato: il pentitismo. Anche qui il ministro è stato molto deciso affermando che la nuova legge deve fissare delle precise modalità per l'utilizzazione dei pentiti; cioè, essi devono avere un tempo ragionevole entro cui dire quello che devono dire, e durante tale periodo non debbono stare insieme con altri pentiti nelle stesse carceri. Passato quel lasso di tempo il rapporto di collaborazione deve considerarsi concluso. Ogni ulteriore reminiscenza apparirebbe tardiva, strumentale, sospetta. E mi è sembrato di capire che, cessato il rapporto di collaborazione, dovrebbe cessare qualsiasi altro vincolo dello Stato con il pentito. Per quanto riguarda le gravi disfunzioni della giustizia in Italia, sia essa civile sia penale, si è avuta notizia che il Consiglio d'Europa stesse preparando una risoluzione di condanna dell'Italia, ma pare che il ministro abbia presentato un dossier sulle iniziative che intende prendere, convincendo i componenti del Consiglio a darci credito ancora per un anno. Da qui l'ammirevole attivismo del ministro. Non è, infatti, tollerabile in un paese civile che negli ultimi dieci anni siano finiti in galera 4.000 innocenti. Lo si è appreso da un volumetto distribuito dal Ministero del Tesoro, dal quale si apprende anche che nel periodo indicato l'erario ha pagato 82 miliardi e 250 milioni di lire per risarcire (si fa per dire in quanto il tetto massimo di risarcimento fissato dalla legge vigente per l'ingiusta detenzione è di cento milioni) le vittime senza volto di errori giudiziari e i 4.000 in carcere senza un provato perché. Gli esperti, che hanno redatto il lavoro, ci dicono che 76 miliardi e 307 milioni sono stati erogati per i 3.974 casi di ingiusta detenzione e quasi 6 miliardi per le 40 persone colpite da errori giudiziari. Altro dato rilevante del lavoro del ministero del Tesoro è che le Corti d'Appello più interessate alla ingiusta detenzione sono nell'ordine: Napoli, Palermo e Reggio Calabria, cioè i distretti dove più forte è il fenomeno della criminalità organizzata e dove maggiore è stata l'utilizzazione del fenomeno del pentitismo. Ora io penso che l'attivismo del Ministro Guardasigilli sia da lodare, come sia anche da lodare l'iniziativa per elevare il tetto del risarcimento per ingiusta detenzione. La nuova norma, che sta per essere approvata, il cui proponente è Pietro Carotta del Ppi, eleva il tetto a un miliardo. Sorge il problema della copertura finanziaria e della riduzione dei casi di ingiusta detenzione. Certo non è possibile evitare errori, in quanto il rischio dell'errore accompagna sempre l'azione dell'uomo in ogni campo, ma è certamente possibile ridurli in quanto i livelli denunciati appartengono alla patologia e non alla fisiologia. Occorrono, quindi, nuove regole, e occorre, soprattutto, un maggior senso di responsabilità e di equilibrio da parte di quanti esercitano pubbliche funzioni, e segnatamente da quanti esercitano la giurisdizione. Non faccio parte di quanti invocano la responsabilità diretta del magistrato in caso di errore, perché il magistrato nell'esercizio delle sue funzioni non deve essere condizionato da preoccupazioni che possano influenzare le sue decisioni; io invoco solo una maggior serenità, equilibrio e senso di responsabilità, che nessuna legge limitativa o coercitiva può imporre perché appartengono al patrimonio dell'uomo.