Giustizia
colabrodo
da La Repubblica del 20.5.98
di GIOVANNI VALENTINI
Un cavillo, un “tempo morto” della giustizia, una “falla” nel sistema
giudiziario. Ma chi può mai accettare una motivazione del genere,
di fronte alla fuga del boss mafioso Pasquale Cuntrera, re incontrastato
del traffico di droga tra la Sicilia e l’America, condannato a 21 anni
di carcere, rimesso in libertà dalla Cassazione e ancora in attesa
di una sentenza definitiva? Chi può tollerare uno smacco e una beffa
di questa portata? Chi può accontentarsi di una spiegazione tanto
banale quanto offensiva e inammissibile? E soprattutto, quale persona
di buon senso può pensare che la gente comune, l’opinione pubblica,
i cittadini di questo paese siano disposti a subire passivamente una tale
umiliazione?
SCARCERATO dalla Cassazione il 6 maggio, da allora Cuntrera s’è
reso irreperibile e ha fatto perdere le sue tracce. Per una questione procedurale,
con una scelta che appare francamente sconcertante, la Suprema Corte aveva
ritenuto illegittimo il prolungamento dei termini di custodia cautelare,
considerato che il processo d’appello era stato fissato in ritardo. E tra
due giorni, con il boss ormai latitante, quella stessa Corte che già
in passato aveva compromesso con alcune discutibili sentenze la lotta alla
mafia sarà chiamata a decidere se confermare la sua condanna a 21
anni di reclusione.
Come vogliamo chiamarla se non una beffa, un’offesa, un’umiliazione?
Per indignarsi legittimamente, non c’ è neppure bisogno di ricordare
che questo avviene ad appena due settimane di distanza dalla fuga di Licio
Gelli, con tutta la coda di polemiche che sono seguite dentro e fuori il
Parlamento. Se poi si aggiunge che Cuntrera è considerato un soggetto
particolarmente pericoloso, che è costretto a muoversi su una sedia
a rotelle, che era “discretamente” pedinato, ma nonostante ciò è
riuscito comunque a fuggire tra le maglie larghe della disattenzione e
dell’inefficienza, non si può fare a meno di trarne una conclusione
amara e sconsolata.
E la conclusione, quali che siano gli errori, le omissioni, le
colpe individuali, chiama in causa necessariamente le
responsabilità politiche del governo in carica, dei ministri
della Giustizia e dell’Interno, dei rispettivi sottosegretari e
infine di tutta la maggioranza di centrosinistra. Poi,
eventualmente, si potrà anche fare il processo al
Parlamento, alle sue lungaggini e alle sue lentezze, all’
incapacità di rispondere tempestivamente alle esigenze reali
del paese, in questo come in altri campi. Ma intanto i cittadini hanno
tutto il diritto di puntare l’indice contro chi governa, contro chi è
preposto all’amministrazione della giustizia e al controllo dell’ordine
pubblico, contro chi poteva e doveva prevenire o comunque impedire la fuga
di Cuntrera come quella di Gelli.
Del resto, che cosa avremmo detto e fatto se il presidente del Consiglio
fosse stato ancora Berlusconi, se i ministri della Giustizia e dell’Interno
fossero stati Biondi e Maroni? Oppure, tornando indietro al tempo
della Prima Repubblica, se a palazzo Chigi ci fossero Craxi o Andreotti;
al Viminale Scalfaro o Gava; in via Arenula Darida o Martelli? Certo, bisogna
distinguere la qualità delle persone e va rispettata anche la storia
politica di ciascuno. Ma non possiamo dimenticare che in Belgio, un paese
che dal debito pubblico alla pedofilia dilagante è certamente più
disastrato del nostro, i ministri della Giustizia e degli Interni si sono
dimessi all’istante per la fuga del “mostro” Dutroux durata appena tre
ore.
L’”effetto Gelli”, peraltro, non ha favorito soltanto Cuntrera.
Oltre al boss mafioso, si apprende ora che sono riusciti a fuggire anche
due allevatori di Orgosolo, accusati di sequestro di persona; mentre il
pentito Martino Siciliano ha fatto perdere le sue tracce e a Roma un parricida
agli arresti domiciliari ha ucciso a forbiciate un vicino perché
aveva il volume della tv troppo alto. Ma che razza di Giustizia è
mai questa? Che cosa rispondono il governo e il Parlamento? E intanto,
quale fiducia può ancora riporre il cittadino negli apparati di
sicurezza e di polizia?
Questa è una giustizia colabrodo, una giustizia allo sfascio,
come documentano d’altronde i dati diffusi nei giorni scorsi dai magistrati
del “Movimento per la giustizia” guidato dal giudice Mario Almerighi. Se
è vero come risulta da queste statistiche che nel 1995, su 68 condannati
a titolo definitivo in stato di libertà, soltanto cinque sono finiti
in carcere, non c’è poi da sorprendersi più di tanto che
due personaggi del calibro di Gelli e Cuntrera abbiano trovato il modo
di rendersi irreperibili. Nello stesso anno, i co ndannati a pene detentive
con sentenze di vario grado sono stati 125 mila, ma di questi solo 37.915
sono entrati effettivamente in cella, vale a dire appena un terzo.
Nel paese che ha condannato a morte Enzo Tortora per poi riconoscerne
l’innocenza, e chissà quanti altri come lui, la verità è
che si va in galera più facilmente prima del processo che dopo.
Le carceri, come denuncia il giudice Almerighi, ospitano troppi innocenti
(presunti o reali) e pochissimi colpevoli già sanzionati da un tribunale.
E in spregio a tutti i principii sulla certezza del diritto che s’insegnano
all’università, a cominciare proprio dalla tempestività e
immediatezza del giudizio, un processo penale dura in media dieci anni.
Siamo insomma a una Caporetto giudiziaria, un dissesto che minaccia le
basi della stessa convivenza civile.
Di fronte a una catastrofe di tali dimensioni, più che cercare
a tutti i costi un capro espiatorio da sacrificare sull’altare
della demagogia, è necessario porre mano sollecitamente a
una ristrutturazione normativa e alla riorganizzazione
dell’ordinamento giudiziario. E’ vero, per esempio, che
l’Italia è l’unico paese in cui l’esecuzione della pena comincia
dopo il terzo grado di giudizio: e allora datevi da fare,
signori del governo e del Parlamento, leader della
maggioranza e dell’opposizione, deputati e senatori, per approvare
rapidamente una legge che corregga questa anomalia, in modo da ridurre
i tempi morti di una Giustizia ingiusta. Ed è anche vero, per fare
un altro esempio, che il rispetto delle garanzie personali di libertà
non può e non deve impedire controlli più stretti e incisivi
in casi come quelli di Gelli o di Cuntrera, in modo da definire meglio
sul piano giuridico le funzioni degli organi di polizia per evitare che
incorrano automaticamente in abusi di potere.
Non erano affatto infondati, dunque, gli allarmi lanciati subito dopo
la fuga di Gelli né le critiche risuonate nelle aule parlamentari,
e perfino tra i banchi della maggioranza e quelli del governo, nei confronti
della magistratura, degli apparati di prevenzione e sicurezza. La Giustizia
italiana è malata, gravemente malata. Gelli, Cuntrera e gli allevatori
di Orgosolo non sono che i “testimonial” forse inconsapevoli di questa
malattia. Per guarirne, occorre evidentemente una terapia d’urto, una cura
da cavallo, capace di restituire al più presto un minimo di efficienza
e di credibilità al sistema giudiziario. Ma il Palazzo dev’essere
avvertito che, in mancanza di decisioni e di risultati apprezzabili in
tempi brevi, l’intero sistema politico e istituzionale rischia di essere
travolto da un’alluvione di sfiducia, discredito e impopolarità
che non risparmierebbe la maggioranza e neppure l’opposizione.
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