Avvocati e processo dopo la Corte

da Il Manifesto del 20.11.98

GIOVANNI PALOMBARINI 
“Sovversione dell’ordine costituito”, così il Presidente della repubblica ha definito l’astensione dalle udienze degli avvocati dopo la sentenza della Consulta sull’art. 513 del cpp, e ha aggiunto che “ribellarsi in questo modo a una sentenza della Corte è peggio che andare in piazza armati”. 
C’è da rimanere sconcertati di fronte al commento presidenziale, non solo palesemente sproporzionato rispetto a un avvenimento certamente discutibile quanto a opportunità, è però del tutto legittimo, ma anche spiazzato rispetto alle questioni in gioco. Il presidente Scalfaro pare non avere colto che la protesta degli avvocati - finalizzata non a contestare l’istituzione Corte costituzionale o l’applicazione della sentenza, ma a sollecitare con un’iniziativa ritenuta efficace adeguati interventi legislativi - si colloca in un quadro da tempo in movimento, che purtroppo ha visto il progredire della crisi di quei principi dell’oralità, del contraddittorio e della raccolta delle prove in dibattimento che caratterizzano il rito accusatorio e che sono garanzie fondamentali anche al di là del processo (ciò è avvenuto, nel corso di questi anni ‘90, per effetto di scelte del legislatore e di alcune sentenze della Consulta, che hanno anche favorito il diffondersi di un clima sostanzialista). Viene in mente, assistendo ai fatti di oggi, un episodio accaduto all’inizio degli anni ‘60 quando, a fronte delle numerose e dure critiche - alle quali si affiancò uno sciopero di protesta - che accolsero una sentenza con la quale il tribunale di Roma ebbe a condannare alcuni dimostranti per fatti avvenuti durante uno sciopero degli edili, scese in campo il Presidente della repubblica del tempo, Antonio Segni, in difesa di quella sentenza e dei giudici che l’avevano emessa, esprimendo per loro il suo positivo apprezzamento. Allora la cultura di sinistra, che oggi tace, contestò quella “esternazione”, così come qualche giudice, che per questo finì sotto processo disciplinare (mentre oggi il vicepresidente dell’Anm subito si schiera col capo dello Stato). In questo parapiglia, caratterizzato da dichiarazioni, controdichiarazioni, richieste di dimissioni, querele, interventi del Csm, è necessario che qualcuno - ad esempio, chi ha responsabilità di governo - predisponga un intervento finalizzato al superamento della situazione. 
Non c’è dubbio, tutti in linea di principio sono d’accordo, che il sistema processuale penale è in crisi: lo dicono gli avvocati, alcuni giudici e in genere la cultura giuridica. E non c’è dubbio che l’utilizzabilità probatoria delle dichiarazioni rese alla polizia o al pubblico ministero da soggetti che al dibattimento tacciono (avvalendosi, si badi, di una facoltà loro riconosciuta dalla legge), è il punto centrale della crisi della natura accusatoria del nuovo processo. Di fronte alla contraddizione - da un lato si sottolinea la necessità di non disperdere dati di conoscenza, a volte decisivi, acquisiti nella fase delle indagini preliminari, dall’altro si lamenta l’abbandono del contraddittorio davanti a un giudice terzo come metodo irrinunciabile per accertare correttamente la verità - la risposta che complessivamente le istituzioni hanno dato è stata fin qui deludente: anche per effetto delle varie emergenze (dalla corruzione alla mafia) il pubblico dibattimento, cioè quello che avrebbe dovuto essere il momento centrale del processo, ha progressivamente perduto di peso e significato. La sentenza della Corte costituzionale, che ha sostanzialmente vanificato l’ultimo intervento del parlamento, non ha fatto altro che confermare una tendenza in atto da tempo. Orbene, è essenziale, anche in termini di democrazia, restituire al dibattimento il suo ruolo. 
Che fare? La parte più avvertita della cultura giuridica ha prospettato da tempo un’articolata ricetta per uscire costruttivamente da questa situazione. Fra le varie proposte se ne possono ricordare due. Si tratta in primo luogo di restringere le ipotesi in cui chi ha reso dichiarazioni alla polizia e al pubblico ministero ha diritto di non parlare davanti al giudice, attraverso la riduzione delle ipotesi di connessione fra i processi: tanti “pentiti” possono essere considerati testimoni senza alcuna lesione delle loro garanzie. Si tratta poi di stabilire, nel quadro della riforma della legislazione premiale, che il permanere dei vari benefici riconosciuti a chi collabora con gli inquirenti dipende da un’analoga positiva disponibilità dimostrata in dibattimento: non si vede perché debba essere considerato meritevole di grandi attenuanti chi, per sottrarsi a un compito certamente sgradevole qual è quello di ripetere in pubblico le sue accuse, tace davanti al giudice.