Ma
l’Ilor non era migliore dell’Irap
da Il Sole 24 ore del 20.10.98
di Raffaello Lupi
Enrico De Mita, sul Sole-24 Ore del 16 ottobre, ha previsto un esito
negativo delle iniziative tendenti a ottenere dalla Corte costituzionale
una dichiarazione di illegittimità dell’Irap. Non si può
che concordare con tale previsione, nonché con le valutazioni relative
alla timidezza della Corte costituzionale in materia tributaria e alla
sua pragmatica sensibilità alle questioni di gettito. Si può
aggiungere che, nel caso particolare dell’Irap, queste preoccupazioni sarebbero
ingigantite dalla prospettiva di un «vuoto fiscale» derivante
dalla restituzione dell’imposta dichiarata incostituzionale, senza possibilità
di compensazioni a fronte dei tributi che in seguito all’Irap, sono stati
abrogati o modificati.
Le prospettive di un accoglimento della questione di costituzionalità
sono indebolite anche perché molte censure proposte dagli ordini
professionali, se riconosciute fondate, varrebbero al di là del
limitato orizzonte del lavoro autonomo e potrebbero essere estese al piccolo
commerciante o all’artigiano, nonché alla grande impresa che paga
l’Irap su salari e interessi pur in presenza di un reddito negativo. Le
valutazioni di costituzionalità finirebbero quindi per investire
l’imposta nel suo complesso, al di là delle pretese discriminazioni
nei confronti dei lavoratori autonomi.
Tutte le considerazioni sulla tendenza in senso lato «politica»
della Corte a respingere le questioni di costituzionalità appaiono
quindi, in questo caso, particolarmente eclatanti e rendono facili le previsioni
di un rigetto. Senza però ricorrere a queste valutazioni di
opportunità politica da parte della Corte, una sentenza di rigetto
potrebbe essere suffragata anche da valide motivazioni tecniche. Motivazioni
sufficienti ad affermare che, se la Consulta dichiarasse infondata la questione
di costituzionalità dell’Irap, farebbe in buona sostanza solo il
proprio mestiere.
La Corte ha infatti il compito di censurare l’esercizio irrazionale
e contraddittorio degli amplissimi margini di scelta politica attribuiti
al legislatore; la Corte non può invece entrare nel merito di quella
che, utilizzando un’espressione forse impropria ma efficace, può
chiamarsi la «discrezionalità politica» del legislatore.
Una costante nella giurisprudenza della Corte è che l’esercizio
di questa discrezionalità può essere sindacato solo quando
comporta contraddizioni logiche, nonché irrazionali e arbitrarie
discriminazioni. Orbene, non sembra si possa ravvisare, all’interno
del disegno impositivo in cui si inserisce l’Irap, quella discriminazione
irrazionale che portò alla declaratoria di incostituzionalità
dell’Ilor per i lavoratori autonomi. All’epoca lavoro autonomo e
impresa erano unificati in una penalizzazione, rappresentata da un carico
fiscale aggiuntivo sui redditi «non derivanti da lavoro proprio».
Si trattava di un principio, di stampo quasi sovietico, secondo cui i redditi
non guadagnati con lavoro proprio dovevano essere oggetto della tassazione
aggiuntiva rappresentata dall’Ilor.
La Corte non entrò nel merito di queste valutazioni politiche
e non censurò il principio alla base dell’Ilor, ma solo la sua applicazione
a una categoria di reddito come il lavoro autonomo, privo di una particolare
organizzazione.
Con l’introduzione dell’Irap, la discriminazione qualitativa dei redditi
su cui si fondava l’Ilor è stata messa in soffitta. È ben
vero, infatti, che il reddito delle imprese organizzate con il lavoro altrui
e con il capitale è reddito «non guadagnato», ma è
anche vero che l’organizzazione imprenditoriale è il motore principale
dello sviluppo economico, degli investimenti e dell’occupazione. Appare
quindi costituzionalmente incensurabile, e a mio avviso politicamente apprezzabile,
un disegno di politica tributaria che ha portato all’abolizione dell’Ilor.
Era inevitabile che, nell’ambito di questo disegno generale di riforma,
l’abolizione di una imposta che procurava circa 20mila miliardi di gettito
provocasse un riassestamento complessivo del regime fiscale di quasi tutte
le categorie di contribuenti. Di ciò costituisce un logico corollario,
accanto a profondi mutamenti nella tassazione delle imprese, anche il coinvolgimento
dei lavoratori autonomi. Non appare quindi censurabile, sotto il profilo
di quella razionalità esteriore che caratterizza i giudizi di costituzionalità,
il fatto che altre categorie di reddito, insieme con altri soggetti rientranti
nell’ambito del reddito d’impresa, abbiano in parte assorbito i contraccolpi
dell’abolizione dell’Ilor.
Si può aggiungere, infine, che — al di là di una certa
sovrabbondanza definitoria del decreto Irap — ai giudici della Consulta
non sfuggirà che le attività d’impresa e professionali non
sono colpite come tali, ma solo se, e nella misura in cui, ne derivano
fenomeni economicamente valutabili, come redditi propri, salari e interessi.
C’è quindi un fondamento economico, al quale si affiancano altre
giustificazioni, forse più sofisticate sul piano della costituzionalità
e anche meno immediatamente comprensibili, come l’oggettiva attitudine
di determinate attività a operare sul mercato, nonché le
diseconomie create a livello locale dalle attività commerciali e
professionali. A voler essere accademicamente perfezionisti nessuna di
queste possibili giustificazioni teoriche dell’Irap appare, da sola, pienamente
soddisfacente sotto tutti i profili, ma ce n’è abbastanza per escludere
quel macroscopico abuso della discrezionalità legislativa cui si
connettono le dichiarazioni di incostituzionalità.
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