Nervi saldi per evitare confusioni

da Il Messaggero del 20.9.99

di ROBERTO MARTINELLI
DOMANI il governo affronta la più volte annunciata e mai risolta emergenza criminalità. Il pacchetto di misure messo a punto in primavera e poi aggiornato sull’onda incalzante degli episodi di violenza viene esaminato in un clima politico di grande confusione. Maggioranza e opposizione hanno accantonato i timidi approcci dell’inizio dell’estate e sono al muro contro muro. Ciascuno dei due poli rivendica a sé la scelta della soluzione migliore sul come garantire al cittadino sicurezza e giustizia. E sullo sfondo, il circo mediatico si illumina ogni giorno di interviste a catena di ministri e politici, di magistrati e giuristi, di vescovi e questori che dettano slogan, danno ricette e dicono di saperne assai più di quanto non sanno, o dovrebbero saperne, gli addetti ai lavori.
Nel mirino dell’esecutivo sono finite le leggi permissive e la giustizia buonista. Quei meccanismi cioè che non garantiscono l’effettiva espiazione della pena, e concedono con troppa benevolenza permessi e libertà agli imputati detenuti. E’ all’ordine del giorno anche il problema dei poteri che la polizia dice di aver perduto con l’entrata in vigore del nuovo codice che attribuisce al pubblico ministero il dominio assoluto sull’azione penale. Intanto dallo scranno più alto del Parlamento si è alzata, autorevole e forte, una voce per dire che la sicurezza viene prima della giustizia e che non c’è giustizia senza sicurezza. E subito dalle opposizioni è salito il controcanto della protesta contro uno Stato di polizia che nessuno aveva evocato.
E giù dichiarazioni, commenti, polemiche, fiumi di parole sfiorate dal sospetto di avere come unico fine un presenzialismo fine a se stesso e non la volontà di contribuire alla soluzione di un problema vero, reale, ogni giorno più urgente da risolvere. Il problema è davvero quello sintetizzato con giustezza di toni nelle parole "sicurezza e giustizia". Alle quali gli italiani affiancano simbolicamente altri due concetti: libertà e lavoro. Spesso dimenticati nelle analisi degli esperti e invece strettamente legati, come rivela un sondaggio dell’Eurispes, alle emergenze che domani il governo affronta col pacchetto anticrimine preparato ad aprile, modificato ad agosto, e in corso di adeguamento in queste ore.
Sicurezza e giustizia quindi. Non c’è dubbio che la prima prevalga sulla seconda, ma non in senso funzionale. La sicurezza è qualcosa che non ha nulla a che vedere con la giustizia. La sicurezza è il presupposto di tutte le libertà. A cominciare da quella di passeggiare nelle strade e nelle piazze del proprio paese senza essere attinti da proiettili vaganti; di vivere nella tranquillità delle proprie case senza essere derubati o rapinati; di viaggiare in treno o sulle autostrade senza diventare bersaglio di piccoli o grandi delinquenti che si divertono a lanciare sassi; di non essere costretti ad assistere al libero mercato della droga, della prostituzione, e di quant’altro porta al racket o al crimine organizzato.
Se sicurezza è tutto questo cosa c’entra la giustizia, cosa c’entrano i magistrati, cosa c’entra l’espiazione effettiva della pena? La sicurezza la si garantisce con la prevenzione, con la presenza e con la forza della legge, con il controllo del territorio e non il pressappochismo né con la tolleranza. Né, soprattutto, con l’incapacità politica ed amministrativa di affrontare fenomeni epocali come quello dell’immigrazione, senza prevedere strutture e misure adeguate per chi è stato ospitato nel nostro paese per motivi umanitari o chi vi è entrato in maniera clandestina.
Giustizia è tutt’altro. E’ garanzia di verità, di tutela del cittadino vittima del reato, ma anche dell’indagato che ha diritto ad un processo giusto e, se colpevole, ad una condanna, che lo aiuti a reinserirsi nella società. Non v’è dubbio che giustizia sia anche certezza della pena e non processi burletta come purtroppo se ne celebrano tanti in Italia. E questo sì che riguarda il codice, i magistrati, il sistema carcerario e tutte le altre strutture previste da uno Stato di diritto. Ma neanche su questo fronte si hanno idee chiare sul da farsi. C’è chi propone condanne più pesanti per i reati di maggior allarme sociale come furti e scippi, c’è chi prevede nuove aggravanti o tipologie diverse nella casistica penale.
E chi infine ritorna sul vecchio pallino di non aspettare il verdetto definitivo per far scattare le manette all’imputato. In un primo tempo si voleva che ciò avvenisse dopo la prima condanna. Dopo aver scoperto che il 58 per cento delle sentenze viene riformato in appello, si vorrebbe aspettare questo secondo giudizio. Ma neanche questo è possibile perché la Costituzione non lo consente. Il fine che si intende raggiungere è insomma quello di costringere il giudice ad essere più severo e ad emettere sentenze che non permettano all’imputato di riacquistare la libertà in tempi brevi.
Ma è davvero questa la ricetta miracolosa per garantire sicurezza e giustizia? L’esperienza del passato non ha forse insegnato che la repressione non è mai stata strumento utile di lotta alla criminalità? Semmai è stato il contrario: spesso il carcere è stato scuola di delinquenza e non di redenzione. Che fare allora? Semplice: tenere i nervi saldi, non lasciarsi andare sull’onda delle emozioni, né lasciarsi influenzare dagli schieramenti politici di appartenenza. E non dimenticare che è allo studio una nuova riforma generale del diritto penale. Una commissione di giuristi vi lavora da sei mesi ed è arrivata alla conclusione di ridurre l’entità delle pene perché i giudici italiani non infliggono mai quelle massime. E che, invece, quelle maggiormente applicate sono le medio-minime. E’ così che la giustizia italiana è diventata "virtuale" in un sistema apparentemente severo, ma di fatto inefficace