Il processo deve diventare servizio
da Il Sole 24 ore del 20.9.99
Il rapporto della Corte dei conti sui primi anni di esperienza dei giudici
di pace può sintetizzarsi in due righe tratte dalle sue oltre cinquanta
pagine: «un clima culturale poco propenso, sino ai primi anni Novanta,
sia a programmare la spesa implicata dallo svolgimento dell’azione amministrativa,
sia ad ammodernare la struttura organizzativa centrale e periferica».
Tuttavia i rilievi che la Corte dei conti muove non sembra che possano
limitarsi al solo passato, bensì sono facilmente trasferibili ad
altre analoghe iniziative in corso prima fra tutte la soppressione della
figura del pretore e l’attribuzione di tutte le competenze al giudice unico
di Tribunale, oppure all’estensione della giurisdizione del giudice di
pace alla materia penale. Ma qual è questo "clima culturale", tuttora
dominante, e quali possono essere gli antidoti a esso?
L’amministrazione della giustizia viene vista come un elemento essenziale
dello Stato, il quale attraverso essa manifesta la propria potestà
sui cittadini. Questa concezione è fondata sul primato della giustizia
penale dove solo lo Stato può "punire" e dunque implica un rapporto
di soggezione dei cittadini rispetto all’Autorità. Ma ha ancora
senso — o quell’originario senso — con riguardo alla giustizia civile?
Se dunque concepiamo l’amministrazione della giustizia (sicuramente
quella civile, ma sotto taluni aspetti anche quella penale) come un servizio,
le conseguenze sono di non poco conto:
innanzitutto la banalissima considerazione, dura da attecchire in Italia,
che il servizio è prestato a favore degli utenti, e non di chi lo
gestisce (la prassi nazionale è che gli ospedali sono concepiti
per medici e infermieri, le ferrovie per i ferrovieri, le scuole e le università
per i professori);
la "domanda" di giustizia civile in Italia è crescente ma l’"offerta"
è, sostanzialmente, anelastica. Per invertire ciò è
necessario cambiare mentalità: i servizi vanno portati nei luoghi
dove effettivamente vengono richiesti e vanno forniti quei tipi di servizi
che maggiormente vengono richiesti (dunque specializzazione programmata
dei giudici);
quel che è notevole è che la "domanda" è già
parzialmente "privatizzata": per fare una causa ci vuole un avvocato. Se
potessimo calcolare tutti i redditi, dichiarati e sommersi, della professione
forense e ripartirli per settori di intervento (civile, penale, amministrativo,
stragiudiziale) avremmo una visione del valore della "domanda" di giustizia;
il problema è che tali cifre coprono solo un soggetto del processo:
ne restano fuori i giudici e cancellerie;
la conseguenza è che è facile per il professionista nascondere
la propria eventuale inefficienza dietro quella del_l’amministrazione:
la differenza fra l’avvocato diligente e quello incapace viene spesso azzerata
dal cattivo funzionamento degli uffici. Il che ovviamente deprime la concorrenza
e soprattutto la qualità del servizio reso al cliente.
La relazione della Corte dei conti offre, in conclusione, lo spunto
per una apparente provocazione: se il costo dei giudici di pace è,
annualmente, di oltre 300 miliardi (di cui la maggioranza spesa per i 3mila
giudici e i 4.200 dipendenti di cancelleria) non è possibile pensare,
con tale cifra, di trovare un privato che renda lo stesso servizio con
maggiore efficienza? Considerata la modestia del valore di competenza del
giudice di pace (5 milioni; fino a 30 in casi di danni alle cose per incidenti
stradali) davvero vi è spazio per sperimentare forme alternative
di amministrazione della giustizia e di risoluzione delle controversie.
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