«Abolire il secondo grado
di giudizio»
da La Stampa del 21.11.99
inviato a MILANO
IL procuratore di Palermo, Piero Grasso, ostenta tranquillità
e, tuttavia, non riesce a nascondere completamente le preoccupazioni per
un futuro alquanto incerto. La stagione dei pentiti di mafia sembra ormai
sepolta dal «ritorno» (almeno a livello di immagine) dell’effetto
Andreotti, ma soprattutto dalle conseguenze delle nuove norme sul «giusto
processo». Il clima politico generale non è di quelli che
possano indurre all’ottimismo una magistratura presa dagli altari e posta
quasi sul banco degli accusati. Tutto ciò non potrà non influire
sul futuro dei processi che sono ancora in piedi a Palermo, come a Caltanissetta
o a Catania o a Firenze.
Eppure Grasso non abbandona la sua proverbiale calma. Seduto a Palazzo
Marino ad ascoltare i relatori della Conferenza internazionale sulle «Risposte
alla sfida della corruzione», sorride appena in un vano tentativo
di mascherare i guai del futuro, quasi a volerli esorcizzare. Eppure, chi
lo conosce sa che il procuratore non è tipo da abbandonarsi all’autoflagellazione
senza neppure fare un tentativo per tamponare le falle. «Tutti mi
chiedono come sto. E a tutti - ironizza - rispondo che personalmente sto
benissimo. Certo non nascondo qualche preoccupazione per ciò che
accade e che potrebbe ancora accadere nelle prossime settimane».
Intuisce che le sue parole potrebbero essere fraintese e previene: «Attenzione,
nessuna polemica, soltanto la necessità di esser chiari in un momento
che mi sembra delicatissimo». E continua: «Sarebbero, d’altra
parte, polemiche inutili e sterili. Sarebbe come chiudere la porta quando
i buoi sono usciti, e invece abbiamo bisogno di chiarirci le idee per andare
avanti. Il pianto greco è portatore di pericoloso immobilismo. Noi,
invece, abbiamo voglia di rimboccarci le maniche e continuare a lavorare».
Cos’è questa, dottor Grasso, una presa d’atto che si è
chiusa una stagione e si ricomincia con regole diverse?
«La politica ha le sue regole e non spetta a noi tecnici interferire
con la sovranità del Parlamento. Considerato l’altissimo tasso di
unanimismo con cui le forze politiche hanno varato in prima lettura le
norme del giusto processo, non resta che prendere atto di ciò che
sarà dei dibattimenti ancora aperti ed attrezzarsi sin da ora per
indagini più penetranti e per un processo che sia di “ragionevole
durata”, così come prevede il rinnovato art. 111 della Costituzione.
Ecco, semmai è dovere dei tecnici segnalare al legislatore i rischi
cui si va incontro ed elencare tutto ciò di cui abbiamo bisogno
per continuare a lavorare serenamente e con profitto».
Già, procuratore, di cosa avete bisogno?
«Sentiamo la necessità, innanzitutto, di norme chiare,
semplici e di facile interpretazione. E non per un capriccio, ma per sapere
esattamente su quali elementi di prova contare al momento dell’inizio di
un’indagine. E’ indispensabile poter valutare in anticipo le probabilità
di successo dell’accusa al fine di evitare processi inutili, defatiganti
che poi si risolvono in clamorose assoluzioni».
Allude ad una legge che regoli il giusto processo?
«Dico che dobbiamo sapere esattamente che valutazione dare, per
esempio, alla formulazione secondo cui il collaboratore - per esser considerato
riscontro di un altro - deve avere “conoscenza autonoma e diretta” dei
fatti. La norma del nuovo 192 è ambigua e, se mi fosse consentito,
mi permetterei di consigliare uno sforzo maggiore per renderla subito chiara.
Il pm deve immediatamente capire cosa debba intendersi per “conoscenza
diretta dei fatti”. Un esempio: ha valore di prova il racconto su un avvenimento
a cui il collaboratore ha assistito direttamente, oppure è sufficiente
che dello stesso fatto abbiano parlato altre due persone di fronte al collaboratore?
Non dimentichiamo che, finora, ha funzionato da riscontro alle dichiarazioni
di un pentito anche il “de relato” di altri, qualificato dalle regole interne
dell’organizzazione a cui appartengono i soggetti. Se così non sarà,
bisogna prenderne atto ed organnizarsi».
Dottor Grasso, il giusto processo pone l’accento, e lei stesso lo sottolineava
all’inizio, sulla «ragionevole durata». Come si potrà
garantire, con questi problemi irrisolti, un giudizio più celere?
«Quella dei processi che non finiscono mai è la vera patologia
del nostro sistema giudiziario. Il giudizio finale arriva quasi sempre
in un’epoca troppo distante dal momento in cui i fatti sono avvenuti e
quindi in un clima completamente di verso da quello che ha generato il
processo. In sostanza ciò porta a giudicare quasi sempre il passato
remoto».
E’ vero, ma abbiamo pure verificato che è quasi impossibile
accorciare i tempi.
«Io un’idea ce l’avrei. Perchè non abolire il secondo
grado di giudizio, l’appello? Primo grado e poi l’ultima parola alla Cassazione».
Non si assottiglierebbe notevolmente la soglia di garanzia per l’imputato?
«Guardi, le nuove norme sono più che una corazza per il
cittadino sotto inchiesta. Con un processo così garantito nel merito,
soltanto una evidente sfiducia nei giudici di primo grado può giustificare
un successivo grado di appello dove il giudizio si risolve quasi sempre
nel controllo sulle carte».
Ma nel caso di un solo grado di giudizio, non si dovrebbe riformare
anche la Cassazione, oggi arbitra delle violazioni formali?
«Non dimentichiamo che la Cassazione si pronuncia anche sui cosiddetti
difetto di motivazioni».
Ma come potrebbe, procuratore Grasso, l’abolizione del giudizio d’appello
velocizzare il processo di primo grado?
«Basti pensare soltanto al numero di magistrati che si potrebbe
“liberare” ed utilizzare per rinforzare i quadri dei pubblici ministeri
dei Tribunali e delle Corti d’Assise. Certo il numero dei fascicoli in
lista d’attesa si assottiglierebbe notevolmente».
E’ evidente che lei sta cercando già di sintonizzarsi con le
nuove norme. Cos’altro chiederebbe al governo, alle istituzioni?
«Direi che abbiamo bisogno di maggiori risorse. La Giustizia,
e questo è un problema annoso e mai risolto dalle leggi finanziarie,
è la Cenerentola nel bilancio complessivo dello Stato. Non si può
pensare ad un processo giusto e rapido, non si possono varare riforme senza
magistrati, senza aule, senza personale amministrativo a sufficienza. Senza
efficienza non è possibile rispondere all’esigenza di tutela che
viene dalla collettività, bisognosa di protezione sia dalla criminalità
comune che da quella mafiosa. E non si danno risposte alla domanda di giustizia
che si leva alta dai cittadini».
Quali ulteriori conseguenze provengono dal «cambio di rotta»?
«Mi sembra innegabile che si vada verso l’abbandono della strada
del pentitismo. Ciò vuol dire che bisognerà attrezzarsi per
tornare alle indagini tradizionali. Occorre, quindi, che tutte le forze
di polizia siano incentivate ad un maggior impegno, e - soprattutto - che
siano dotate di tecnologie avanzate, specialmente nell’azione di contrasto
al fenomeno mafioso, capace di impiegare, sul territorio e fuori, risorse
inimmaginabili. L’apparato investigativo antimafia deve poter disporre
di una massiccia e costante presenza sul territorio».
Sta dicendo che esistono problemi di organico, di scarse risorse e
di carenze tecnologiche?
«Non è una novità che oggi le indagini altamente
specialistiche vengano appaltate a privati, coi costi facilmente immaginabili.
E non è neppure una novità che il problema degli straordinari
degli apparati investigativi crea problemi finora superati soltanto con
la buona volontà e lo spirito di abnegazione di poliziotti, carabinieri
e finanzieri. Teoricamente dovrebbe accadere che se scade l’orario di lavoro
durante un pedinamento, l’agente - che sa di non poter contare sullo straordinario
- dovrebbe interrompere il servizio. Ovviamente nessuno lo ha mai fatto,
anche sapendo che non ci sono fondi per il lavoro in più. Qualcuno
suggerisce che si potrebbe ovviare facendo ricorso ai cosiddetti riposi
compensativi. Questa soluzione ignora che, in tal caso, occorrerebbe raddoppiare
l’organico».
E’ vero, però, che sono stati fatti i concorsi per risanare
i vuoti del personale ausiliario giudiziario.
«Verissimo, ma gli assistenti del giudice - pur vincitori di
un concorso pubblico - non vedranno l’assunzione per problemi di bilancio.
E allora dico: in queste condizioni, come può il cittadino onesto
pensare che la politica stia effettivamente lavorando per un processo giusto?
Tra norme nuove e vecchi, irrisolti problemi si arriverà mai a garantire
il corretto funzionamento della macchina giudiziaria?».
Che fa, dottor Grasso, si abbandona al pessimismo?
«No, è che non vorrei - nell’ambito della lotta alla mafia
- si tornasse ad una situazione precedente al 1992. Una raffica di assoluzioni
in appello, o - peggio - una serie di scarcerazioni o l’impossibilità
tecnica di proseguire nelle inchieste, potrebbero rappresentare quella
linfa vitale di cui Cosa Nostra abbisogna per certificare la definitiva
uscita dalla crisi in cui l’avevamo costretta».
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