Il “giusto processo” non frena
la lotta al crimine
da Il Messaggero del 21.11.99
di ANTONIO MARTONE*
DOPO l’approvazione della riforma dell’art. 111 della Costituzione
è stato da alcuno osservato che il testo garantirebbe l’imputato
ma non anche la parte lesa e più in generale la società.
Sul punto occorre un chiarimento.
La riforma dell’art. 111 della Costituzione, nel ribadire la parità
nel processo tra accusa e difesa, ha accolto un principio di civiltà
giuridica che non può non essere condiviso da tutti al di là
di ogni differenza politica e culturale. Ma la scelta così operata
ha importanti conseguenze e qualche non trascurabile prezzo.
Ne esce rafforzata la convinzione di chi ravvisa nel momento del giudizio,
davanti a un giudice che solo nella rigorosa imparzialità e nella
soggezione “soltanto alla legge" può trovare la fonte della sua
legittimazione a giudicare gli altri, l’essenza stessa della giurisdizione.
L’interesse della società civile e (soprattutto se non costituite)
delle parti lese non può che essere rappresentato dal pubblico ministero,
ma il diverso giudizio di valore su tale interesse di fronte a quello dell’imputato,
anche se di reati particolarmente gravi, non può riflettersi in
una diversità di trattamento sul piano delle norme processuali dettate
per l’accertamento della verità.
La lotta al terrorismo, alla mafia e alle altre forme di criminalità
organizzata può e deve ispirare, nel rispetto della legge, l’attività
delle procure della Repubblica, ma non può condizionare la decisione
del giudice vincolata esclusivamente a quanto è emerso nel corso
del dibattimento tra parti in posizione di parità.
La rilevanza determinante del dibattimento può solo implicare
un’attenta limitazione del “diritto al silenzio" di chi comunque è
coinvolto nel processo, un maggior rigore per il testimone falso o reticente,
una più efficace tutela contro le ritorsioni e le minacce in danno
della parte lesa o dei testimoni, l’adozione di misure idonee ad assicurare
la genuinità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
e la trasparenza dello scambio tra questi e lo Stato, ma non può
incidere sulle regole del giudizio.
La necessità di riprodurre in dibattimento tutte le prove acquisite
nel corso delle indagini può indubbiamente implicare un ulteriore
allungamento dei tempi del processo, ma è su altri piani (depenalizzazione,
potenziamento e migliore organizzazione delle strutture con adeguati investimenti,
ricorso per gli illeciti minori alla magistratura onoraria) che vanno ricercate
le soluzioni e non riducendo le garanzie processuali. Rimane, ed è
forse il più importante, il problema del ruolo e della collocazione
del pubblico ministero nell’ordinamento giudiziario e dei suoi rapporti
con la polizia giudiziaria.
Indubbiamente, in quanto parte nel giudizio, il pubblico ministero
svolge una funzione nettamente diversa da quella del giudice. Ma non è
questo un argomento sufficiente per auspicarne una separazione dai magistrati
giudicanti. Verrebbe ad essere coinvolto anche il principio dell’obbligatorietà
dell’azione penale e, a medio termine, si creerebbero le condizioni per
una sua sottoposizione all’Esecutivo e per la sua eleggibilità.
Soluzioni che tutti dichiarano oggi di respingere e che sarebbero estremamente
pericolose in un sistema politico che sembra avviato al “bipolarismo".
La temporaneità dell’esercizio delle funzioni requirenti e rigorosi
limiti all’esercizio delle due diverse funzioni nello stesso territorio
potrebbero, invece, costituire valida risposta ai problemi sollevati. Il
magistrato che in qualità di giudice è stato chiamato a decidere
della validità dell’attività del pubblico ministero con maggior
rigore ne potrà successivamente esercitare le funzioni.
Una soluzione di questo tipo, accompagnata da una più attenta
delimitazione dei rapporti con la polizia giudiziaria, potrebbe forse consentire
insieme a una minore sovraesposizione delle procure della Repubblica, il
superamento delle polemiche attuali che non consentono l’indispensabile
recupero della fiducia dei cittadini nella Giustizia.
*magistrato, ex presidente dell’Anm
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