Perché
non sono fatti loro
da Il Manifesto del 21.11.98
IDA DOMINIJANNI
I l problema non è affatto semplice, aldilà del sospiro
di sollievo che tutti i democratici europei tirano - tiriamo - all’idea
che Augusto Pinochet possa essere processato e rispondere finalmente dei
suoi crimini. Perché anche il caso Pinochet implacabilmente riporta
al centro, spostandolo sul piano internazionale, il problema del rapporto
fra giustizia e politica. E porta in primo piano, imponendolo alla prassi
giuridica dei singoli stati nazionali, il problema di che cosa deve diventare
la battaglia per la difesa e l’allargamento dei diritti in tempi di globalizzazione.
Al seminario organizzato ieri in Campidoglio dalla fondazione internazionale
Lelio Basso con la collaborazione del gruppo dei senatori Ds e della federazione
nazionale dei Verdi, questi e altri nodi sono precipitati immediatamente
sul tavolo della sala della Protomoteca. E non solo grazie alla limpidezza
dell’analisi giuridico-politica impostata da Salvatore Senese e poi dalla
giurista Flavia Lattanzi, dal magistrato romano Giovanni Salvi, dal giudice
madrileno Perfecto Andrés Ibanez, da Cesare Salvi e da Luigi Ferrajoli.
Ma anche grazie al vis-a-vis fra l’ambasciatore cileno presente in sala,
l’ex deputato socialista del governo Allende Alejandro Jiliberto e il pm
madrileno Carlos Castresana cui si deve l’iniziativa per l’incriminazione
del dittatore cileno.
L’ambasciatore - a sua volta vittima in passato del regime di Pinochet,
ma oggi strenuo sostenitore della pacificazione nazionale - lo dice infatti
senza mezzi termini: il Cile non riconosce ai tribunali spagnoli o di altri
stati l’autorità per giudicare “situazioni che si sono verificate
nel suo territorio nazionale”. Pinochet, in parole povere, è cosa
nostra, occuparsene altrove vuol dire ledere la sovranità del governo
cileno. Non solo: “l’ingerenza dell’opinione pubblica internazionale oggi
non ci auta, perché riapre in una transizione fin qui considerata
esemplare le ferite di un passato che i cileni avevano coscientemente lasciato
da parte”.
Lesa rimozione
Ingerenza, lesa sovranità, lesa politica, e lesa rimozione.
Sull’ultimo tasto basta a rispondere l’intervento commosso di Jiliberto:
“La riapertura del caso Pinochet ci fa per fortuna ricordare cose che volevamo
dimenticare”, in una transizione che si stava chiudendo “in falso” e costruendo
uno stato di diritto fragile, fondato sull’amnistia per i crimini del dittatore.
Quanto ai primi tre tasti, la risposta viene dai giuristi e dai magistrati.
Gli spagnoli in primo luogo, che con queste e altre giustificazioni dell’intoccabilità
di Pinochet hanno dovuto fare direttamente i conti. Non c’è ingerenza
indebita della giustizia spagnola sugli affari cileni, perché i
“crimini contro l’umanità” di cui si è macchiato Pinochet
(“una definizione ormai pacifica nel diritto internazionale”, sottolinea
Flavia Lattanzi) sono delitti che per loro natura travalicano i confini
nazionali, e chiamano in causa la coscienza e il diritto su scala planetaria:
non di ingerenza dunque si tratta ma di un “servizio” dovuto (Castresana).
Casomai tardivo, se è vero che - come dice Senese ricostruendo i
passaggi che hanno lentamente portato all’istituzione del tribunale penale
internazionale - troppo tempo c’è voluto perché si affermassero,
nel diritto internazionale, principi e strumenti per superare la prassi
dell’impunibilità “fatale” e fatalisticamente accettata (Ibanez)
dei dittatori.
Lesa sovranità
Il caso Pinochet va dunque analizzato nel quadro del mutamento in corso
del diritto internazionale, a ridosso dei processi di globalizzazione che
impongono alla cultura democratica strategie globali di difesa dei diritti
umani (Cesare Salvi). Quanto alla lesa sovranità, niente di più
capzioso: lo stato di diritto è precisamente quello che sgretola
la sovranità, la dissolve nel principio che tutti i poteri politici
devono sottostare alla legalità; sul punto, che è cruciale,
tornano con insistenza Senese e Ferrajoli.
C’è poi la questione della lesa politica, argomento che ben
conosciamo in versione nazionale. Su scala internazionale, la musica non
è molto diversa: anche sul caso Pinochet l’accusa è la solita,
“eccesso di attivismo giudiziario”. Ma è un’accusa che si intrappola
da sola, perché contro le sue stesse intenzioni non dà il
dovuto alla politica. E’ grazie all’onda lunga dello sviluppo della giovane
democrazia spagnola che è scattato “il rifiuto della dimissione
giuridica sull’impunibilità dei dittatori, l’integrazione fra diritto
nazionale e internazionale, l’affermazione del diritto come limite allo
strapotere della politica” (Ibanez). Ed è grazie all’onda lunga
di chi a Pinochet, e agli altri regimi che hanno solcato la storia del
secolo, ha resistito, che oggi il dossier dei fatti cileni si può
riaprire, in un’altra epoca e sotto mutate condizioni. Quando quei fatti
toccarono le biografie di milioni di militanti della sinistra italiana,
erno tempi di primato indiscusso - un buon primato, allora - della politica.
Se di questi tempi la politica ama ridursi a tecnica, il buon diritto può
soccorrere nel tornare a imporli alla coscienza internazionale. Il passaggio
di campo è solo apparente: in fondo, nell’interpretare il diritto
e la legalità perché si avvicini il più possibile
a una giustizia giusta, è sempre la buona politica a essere decisiva.
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