Già in carcere dopo il secondo grado?

da La Stampa del 21.9.99

Giovanni Bianconi 
ROMA 
La notizia si diffonde a metà pomeriggio, attraverso un’agenzia di stampa: «Criminalità: in carcere dopo il secondo grado di giudizio». E’ l’idea allo studio del governo, secondo quanto avrebbe detto il neo-sottosegretario al ministero dell’Interno Alberto Maritati. Ma negli uffici legislativi del Viminale e di via Arenula, un provvedimento che traduca in pratica quest’idea ancora non c’è. «Stiamo aspettando che dalla riunione politica di domani (cioè oggi, ndr), arrivino indicazioni su quale direzione prendere, poi potremo lavorare sugli articolati», spiegano i tecnici dei ministeri. 
In pratica si attende un po’ di chiarezza dal mondo politico, considerato che non mancano diversità di vedute e contraddizioni tra le diverse proposte cavalcate in questi giorni di dibattito sul cosiddetto «allarme criminalità». Nel frattempo, da domani, la commissione Giustizia della Camera comincerà le audizioni dei vertici delle forze di polizia, poi il comitato ristretto avvierà la discussione sul «pacchetto sicurezza» presentato in primavera dal governo e sulla riforma della legge Simeone, che consente di evitare il carcere ai condannati a pene inferiori ai tre anni. 
La riforma della Simeone - modifica delle modalità di conoscenza del provvedinmento ed esclusione dai benefici per i cosiddetti «recidivi specifici» - sembra al momento l’unico punto sul quale sembra certo un accordo. Per il resto continuano ad arrivare le proposte più disparate, in attesa che vengano tradotte in soluzioni legislative concrete. 
Per quanto riguarda l’esecuzione della pena dopo il secondo grado di giudizio, potrebbe essere ripescato e riformato un disegno di legge presentato dal governo Prodi, nel giugno del ’98, dopo le fughe di Gelli e Cuntrera che s’erano dati alla latitanza per evitare il carcere all’indomani della sentenze della Cassazione. Quel provvedimento prevedeva, tra l’altro, che in caso di una condanna confermata in appello ad una pena non inferiore a cinque anni di reclusione, lo stesso giudice d’appello potesse ordinare l’ingresso in cella «quando non sia possibile escludere il pericolo di fuga» dell’imputato. 
Per attualizzare l’idea al problema sicurezza si potrebbe abbassare il tetto della condanna per la quale introdurre questa possibilità, e aggiungere al pericolo di fuga quello di reiterazione del reato quando si tratta di una condotta violenta e di particolare allarme sociale. Inoltre si potrebbe allargare la categoria dei reati per i quali - secondo la vecchia proposta antifughe - il giudice può reiterare l’ordine di custodia cautelare allo scadere dei termini della carcerazione preventiva. 
Un altro corno del problema, sottolineato più volte dal ministro della Giustizia Diliberto, è quello dei ricorsi in Cassazione, che si vorrebbero limitare in modo da anticipare la definitività della sentenza. «Spesso hanno una finalità dilatoria, una volta si aspettava l’amnistia mentre oggi si mira alla prescrizione», denuncia il sottosegretario alla Giustizia Ayala. E il suo collega all’Interno Maritati aggiunge: «Certo non si può eliminare la Cassazione, ma un maggior rigore nei giudizi di legittimità ci vuole». 
Tecnicamente, su questo punto, si tratterebbe di intervenire sull’articolo 606 del Codice di procedura penale che regola, appunto, i casi in cui ci si può rivolgere alla Corte Suprema. L’ipotesi è quella di eliminare (o comunque ridurre di molto) la possibilità di ricorso per «difetto di motivazione» delle sentenze di appello, che è la strada attraverso la quale la Cassazione si starebbe trasformando in un terzo giudice di merito, anziché di legittimità. 
C’è poi il nodo dei poteri da affidare alla polizia giudiziaria. La proposta più in voga, in questi giorni di dibattito, è quella di dare un limite di tre mesi (eliminando così l’attuale formula del «senza ritardo») entro il quale gli investigatori devono riferire i risultati del loro lavoro alla magistratura. Ma c’è anche chi preferirebbe lasciare le cose come stanno, lavorando invece per «liberare» la polizia giudiziaria da incombenze burocratiche e amministrative che attualmente impegnano troppe forze. Ma anche su questo, come sugli altri punti in discussione, si attende che al di là delle generiche dichiarazioni d’intenti le forze politiche diano qualche indicazione precisa.