«Pubblicizzare
i giudizi contrari», la Consulta si interroga sulla dissenting opinion
da Il Corriere della sera del 22.2.99
ROMA - «Un atto di coraggio». Gaetano Silvestri, rettore
dell'università di Messina, ha toni esortativi: la Corte Costituzionale
dovrebbe introdurre nel proprio regolamento una norma per rendere pubbliche
le opinioni dei giudici che si oppongono alla sentenza decisa dalla maggioranza.
Una piccola rivoluzione in nome della trasparenza e della capacità
persuasiva.
Questa mattina Renato Granata, severo e puntiglioso presidente, terrà
l'annuale conferenza stampa. + l'unica occasione per ascoltare la voce
ufficiale dei quindici Sommi Custodi della nostra Magna Carta. Un appuntamento
più importante del solito, dopo gli attacchi per l'articolo 513
del codice di procedura penale (la controversa questione dei pentiti) e
dopo le proposte di radicale riforma agitate durante la discussione sul
referendum anti-proporzionale.
E proprio ora che le polemiche appaiono sopite, Granata potrebbe imprimere
all'ultima fase della sua presidenza (scade ad ottobre) un colpo d'ala,
mettendo all'ordine del giorno una modifica del regolamento che istituisca
le tesi di minoranza.
L'opinione dissenziente è prevista dalla Corte Suprema degli
Stati Uniti (dissenting opinion), dal Tribunale costituzionale federale
di Germania, da quello spagnolo e dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo.
In Italia, no. Dal 1956, anno della sua nascita, la Consulta appare come
un organismo monolitico, tetragono, misterioso, che pronuncia verdetti
come fossero verità inconfutabili. Una Chiesa che cancella le eresie.
Gustavo Zagrebelsky, non ancora giudice costituzionale, parlò
di «concezione cattolica». Dogmatica, univoca, pietrificata.
E invece quella che oggi è la tesi sconfitta, domani potrebbe rivelarsi
vincente. L'opinione dissenziente, argomentava, metterebbe al bando «il
principio di autorità per sostituirlo con quello della persuasività».
Da Costantino Mortati a Stefano Rodotà, molte sono state le
voci che in questi 43 anni di vita della Corte hanno proposto la dissenting
opinion. «Io provai a introdurla, ma fui messo in minoranza anche
se per pochi voti», racconta l'ex presidente Antonio Baldassarre.
Ma perchè questa resistenza? I contrari sostengono che rendere
note le motivazioni di minoranza indebolirebbe la Corte e spianerebbe la
strada alle strumentalizzazioni politiche. Lo stesso Renato Granata, in
un convegno organizzato dalla Consulta nel '93, espresse forti dubbi paventando
ostacoli allo sforzo che si fa in camera di consiglio per «raggiungere
il più largo consenso possibile».
«Non credo che il rendere note le diversità aumenterebbe
le divisioni. Anzi, darebbe maggiore autorevolezza», obietta Silvestri.
«Quanto più si opera alla luce del sole, tanto è meglio
- interviene l'ex presidente Aldo Corasaniti -. L'esistenza di una tesi
contraria obbliga l'estensore della sentenza ad una motivazione più
forte ed accurata. La maggioranza è costretta a volare alto, a rinvenire
le ragioni più profonde, tali da superare ed assorbire i motivi
contrapposti e questo è possibile quando si è capaci di grandi
sintesi, commisurate sui tempi lunghi».
Ugo Spagnoli, che della Corte è stato vicepresidente, propugna
da anni questa modifica: «Rafforzerebbe l'autorevolezza della Consulta,
in un rapporto più intenso e trasparente con la società.
Ed eviterebbe tutte le deleterie indiscrezioni giornalistiche e le fughe
di notizie sull'orientamento dei giudici». A proposito di indiscrezioni:
gli ultimi tamtam indicano in Piero Alberto Capotosti, e non in Fernanda
Contri, l'unico dei quindici giudici non favorevole all'ammissibilità
del referendum. Vero? Falso? Il monolitismo alimenta i dubbi. Granata,
se vuole, può dare un colpo di piccone a quest'ultima, piccola ma
resistente, cortina di ferro.
Antonio Soda, attivissimo parlamentare Ds, ha inserito la dissenting
opinion in una proposta di legge già affidata alla commissione affari
costituzionali insieme con quella che cancella le sentenze manipolative
(i giudici dovrebbero dire solo se una norma è costituzionale o
no, senza modificare il testo). «La mia battaglia va avanti. La Corte
non deve legiferare invadendo il campo del Parlamento», annuncia
Soda. Si addensa una nuova tempesta. Un'autonoma modifica del regolamento
placherebbe i venti? Il costituzionalista Roberto Bin diffida: «La
dissenting opinion è molto civile ma il nostro non è un Paese
civile. Rischierebbe di diventare una dichiarazione di schieramento, di
appartenenza. Dovrebbe essere collegata a misure di radicale esclusione
dalla vita politica. La corte è un organismo di cristallo, fragilissimo.
E un delicato oggetto di cristallo non può essere messo nelle mani
di politici ignoranti, prepotenti, barbari». Tutti i fautori della
tesi di minoranza, per la verità, legano la sua introduzione al
divieto di assumere cariche pubbliche per almeno cinque anni dopo il mandato.
«Si taglierebbe la testa a sospetti, dubbi, insinuazioni»,
ammette Spagnoli. Ma c'è un terzo punto in discussione: l'elezione
del presidente. Ora sono i quindici giudici a scegliere tra di loro. E
spesso indicano chi è prossimo alla scandenza: con il risultato
di presidenti in carica per pochi mesi. Ora toccherebbe a Giuliano Vassalli.
«L'attuale sistema non favorisce una dialettica imparziale. Di
volta in volta si creano cordate per favorire questo o quello», denuncia
Baldassarre. Augusto Barbera pensa al sorteggio: «+ una regola che
ha reso grande la repubblica di Venezia, che era in auge ad Atene e anche
a Firenze prima delle riforme provocate da Savonarola». Ma se intanto
si cominciasse con la dissenting opinion?
Marco Cianca,
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