Analisi di una stagione

da Il Mattino del 22.1.99

Nicola Quatrano* 
Un’analisi dello stato delle cose, per quel che riguarda Tangentopoli, non è cosa facilissima né forse può esaurirsi nell’ambito della «cronaca». Si tratta di avvenimenti che, piaccia non piaccia, appartengono ormai alla storia del nostro Paese e come tali devono essere esaminati, tenendo conto dei differenti piani sui quali essi hanno operato e dei molteplici effetti che hanno prodotto. 
Sul piano politico, mi pare che l’iniziativa dei giudici abbia determinato conseguenze consolidate e definitive. Può non piacere che le inchieste sulla corruzione, istituzionalmente finalizzate solo all’accertamento di fatti e responsabilità singole, abbiano prodotto significativi mutamenti del quadro politico, ma è questa la realtà dei fatti. Certo è che esse hanno reso possibile un ricambio di
classe dirigente quale solo altri due avvenimenti, nella storia dell’Italia unita, avevano consentito in eguale proporzione: il colpo di Stato fascista e la Resistenza. Luci ed ombre caratterizzano tuttavia questa storia perché, se essa ha avuto l’indubbio merito di fare giustizia di una politica corrotta e ormai incapace di provvedere ad altro che non fosse il proprio perpetuamento, è anche vero che ha
obiettivamente rafforzato spinte e ideologie di stampo tecnocratico ed autoritario ed ha aperto la strada a trasformazioni istituzionali e del sistema rappresentativo la cui portata non è ancora del tutto chiara. L’offensiva giudiziaria ha rappresentato inoltre in Italia l’antipolitica, fenomeno diffuso in tutto l’Occidente, ed ha preso parte attiva in quell’epocale conflitto tra tecnocrazia e politica e tra
corporation e Stati nazionali che, a mio parere, caratterizza più di ogni altro l’attuale momento storico. 
Paradossalmente, il piano sul quale la stagione di Mani pulite sembra aver prodotto minori conseguenze è proprio quello giudiziario: la Magistratura resta forse l’unica articolazione dello Stato repubblicano a non aver subìto profondi rivolgimenti. È sembrato, per un momento, che si fosse capovolta la tradizionale propensione all’esser forte con i deboli e debole con i forti, perché si sono visti decine e decine di politici ed imprenditori giudicati e incarcerati, al pari di qualsiasi altro cittadino. Ma anche questa impressione -
agli occhi dei più smaliziati o dei più maligni - è sembrata ingannevole, perché gli imprenditori sono stati complessivamente trattati meglio dei politici ed i politici hanno assunto per qualche verso il ruolo di capri espiatori di una vicenda che richiedeva vittime sacrificali. Soggetti dunque che, in quel momento storico ed in quelle circostanze, non potrebbero propriamente esser definiti come «forti». 
Quanto alle singole vicende giudiziarie, il bilancio provvisorio può considerarsi positivo: le più importanti inchieste napoletane hanno tutte trovato conferme nelle prime sentenze. A ben guardare tuttavia, la situazione è meno rosea, perché nessuna è finora approdata ad una decisione definitiva. Eppure le richieste di rinvio a giudizio risalgono alla fine del 1993 ma, da allora, il Tribunale di Napoli ha
operato con una lentezza esasperante. 
Solo nel 1996 la prima sentenza, quella sul patrimonio, poi quella nei confronti di De Lorenzo e, solo da pochissimo, le decisioni relative alla metropolitana ed alla nettezza urbana. Imminente è la conclusione del processo «Crispino», mentre nessuna decisione è ancora intervenuta da parte della Corte di Appello, presso cui pende da circa due anni il fascicolo relativo al patrimonio. Lo stesso processo della funicolare, restituito dai giudici della sesta sezione penale al Pm sulla base di una decisione che non condivido, ma
alla quale riconosco molte ed importanti ragioni, aveva giaciuto, sotto altra gestione, per circa 4 anni nei ruoli senza essere mai iniziato. 
Vero che l’iter procedurale è complicato ed ancor più è stato reso confuso da innumerevoli riforme, ma è sicuramente anche vero che nessuna iniziativa, nessuna sensibilità è stata dimostrata dai vertici giudiziari per rendere possibile la celebrazione dei processi e che, per quelli definiti, il merito spetta solo ed esclusivamente a quei singoli giudici che, a costo anche di sacrifici personali, hanno perseguito la testarda idea di realizzare ciò che, se avessero seguito la marea, non sarebbe stato possibile. 
D’altronde è anche mancata una forte richiesta di verità da parte dell’opinione pubblica, effetto di una sorta di rimozione collettiva rapidamente diffusasi, cosicché i processi che dovevano in qualche modo sanzionare la legittimità o meno della «rivoluzione giudiziaria» si sono presto ridotti a dolorose vicende private di un qualche interesse solo per i diretti protagonisti. È accaduto allora che quelle stesse inchieste che hanno prodotto, come ho già osservato, conseguenze «definitive» sul piano politico, non hanno
ancora superato quella che doveva essere la prima e più istituzionale delle verifiche e che tutto quello che ormai costituisce verità storica acquisita è invece, sul piano giudiziario, ancora una semplice ipotesi di lavoro.  
Tutto ciò è indicativo della distanza che corre tra la vita vera e la Giustizia, ma segnala anche un altro problema, del quale farebbero bene a preoccuparsi soprattutto coloro che più hanno tratto giovamento dalle trasformazioni operate. Che saranno ben fragili in assenza di una completa legittimazione di quelle che sono, volenti o nolenti, le loro radici storiche.  
*magistrato