Giustizia fatta... dopo 47 anni

da La Gazzetta del Sud del 22.1.99

ROMA – Sono serviti 47 anni alla giustizia italiana per stabilire – lo ha fatto la Cassazione – che lo Stato e i suoi avvocati erariali non devono «nascondere», anzi devono mostrare, ai cittadini con i quali sono in causa, i documenti amministrativi prodotti nei loro riguardi e la cui conoscenza è essenziale all’esito del processo. Perché la Pubblica Amministrazione deve avere «la massima attenzione e considerazione per le legittime attese degli amministrati, nei cui confronti gli organi pubblici devono essere ed apparire
interlocutori affidabili e controparti non pregiudizialmente ostili» e proprio in quanto «appartengono ad una pubblica istituzione» gli avvocati dello Stato devono «adempiere ad un ulteriore dovere», quello di rendere «trasparenti» gli atti della burocrazia, ancor più se stilati senza che il dire tto interessato ne abbia «sentore». Il «fatto storico» alla base di questa sentenza della Suprema Corte (n. 550) risale al 1952, quando alla dogana di Domodossola furono sequestrati – e ancor oggi non restituiti – 22 «preziosi» vagoni ferroviari pieni di alluminio e rame, appartenenti alla società Redaelli, storica impresa brianzola del «tondino». Il carico – valore 700 milioni stimati nel 1974 – era in odor di contrabbando, ma nonostante, poi, inchieste penali e civili ne dimostrarono la regolarità, l’imprenditore Stefano Redaelli non potè riaverlo a causa di un documento ministeriale redatto nel ‘74 a sua insaputa. Era successo
che una «informativa» del Tesoro aveva assegnato a un creditore del Redaelli la somma pari al valore dei vagoni, per cui lo Stato nulla più gli doveva e se Redaelli voleva opporsi lo avrebbe potuto fare, ma nei confronti del creditore. Solo che nessuno lo aveva informato della decisione, tantomeno la pubblica amministrazione e i suoi legali. Finché nel 1996 il «re del tondino» trovò, nei meandri dell’erario, il fascicolo che lo riguardava scoprendo l’esistenza di questa nota, a lui ignota per 22 anni. All’ennesima
«puntata» giudiziaria di questa vicenda, davanti alla Corte di Appello di Roma, i giudici, nel 1997, respinsero ancora la richiesta risarcitoria del Redaelli perché imputarono a lui la «mancanza di diligenza nell’aver trascurato di acquisire la documentazione necessaria».