Grande
Riforma prova generale
da La Repubblica del 22.6.99
di ANDREA MANZELLA
IL SENATO sta per votare il progetto di legge costituzionale che è
in bilico tra la Grande Riforma e due grandi equivoci (uno della maggioranza,
l'altro dell'opposizione).
Il primo grande equivoco è che il progetto si intitola all'elezione
diretta dei presidenti delle regioni. Ma poi si scopre che questa forma
di scelta popolare diretta del governo delle regioni può essere
derogata da ciascun Consiglio regionale. Insomma, il nuovo articolo 122
della Costituzione viene scritto così: "Il presidente della giunta
regionale è eletto a suffragio universale e diretto, salvo che lo
statuto regionale disponga diversamente". Dice e disdice, secondo una tecnica
di compromesso basso, inconciliabile con la materia costituzionale.
I federalisti di tradizione, reduci dai successi della Bicamerale,
dicono che così andrà benissimo perché la scelta della
forma di governo è l'espressione più alta dell'autonomia
regionale. E se qualche regione sbagliasse a darsi forme di governo instabili,
peggio per lei, si ravvederebbe a sue spese.
Il ragionamento, come ognuno vede, non sta in piedi. Perché
esso prescinde dalla comune coscienza che il principio della stabilità
di governo, dopo i Trattati costituzionali europei, è entrato a
far parte dei principi fondamentali del nostro ordinamento. Il progetto
al Senato è perciò nel giusto quando individua nella elezione
diretta dei presidenti delle regioni la forma concreta e normale in cui
si specifica quel principio costituzionale di stabilità, rafforzato
da una responsabilità politica personale nei confronti del corpo
elettorale. È invece profondamente sbagliato quando, smentendosi,
rende derogabile da tutte le regioni un sistema che non è più
nella loro disponibilità in quanto esprime un principio vincolante
per tutto l' ordinamento repubblicano.
Se infatti una regione si potesse dare un governo istituzionalmente
privo di stabilità e a responsabilità incerta (come fu nell'esperienza
delle grandi coalizioni proporzionalistiche e consociative che hanno disfatto
la finanza italiana) le conseguenze negative non sarebbero solo per essa.
Ne risentirebbe l'intero paese, comprese le regioni virtuose che si fossero
preoccupate di assicurarsi insieme stabilità governativa e responsabilità
di tenuta finanziaria.
Il pericolo di un'Italia à la carte o a pezze d'Arlecchino, è
un pericolo concreto. A parte le giuste esigenze di differenziazione delle
tre regioni speciali con pluralismo etnico-territoriale, vi sono forze
politiche che, già da ora, propongono forme di governo regionale
vetero-parlamentari con possibilità di "ricambi" in corso di legislatura.
Ed è facile prevedere che queste forme di governo "consociative
a rotazione" come ai bei tempi della prima e quasi generalmente catastrofica
esperienza regionale, prevarranno nelle zone d' Italia dove la società
civile è più debole e tende a respingere istituzioni forti.
È, comunque, paradossale che un progetto costituzionale nato per
impedire, con l'elezione diretta del presidente regionale, i "ribaltoni",
rinunci poi con quella clausola derogatoria sia al mezzo (l'elezione diretta)
sia al fine (la norma antiribaltone). I due meccanismi sono, nel progetto
interdipendenti: se si smonta il primo, si smonta anche il secondo.
Il grande equivoco è nel credere che l'autonomia regionale si
giochi sulla scelta della forma di governo. E non invece, come insegnano
i grandi Stati federali, nelle politiche concrete e nella stessa politica
di organizzazione elettorale e istituzionale. Queste politiche possono
infatti, e devono, variare secondo le necessità territoriali: mantenendo
però ben omogenei, in tutto il perimetro repubblicano, i presupposti
di stabilità necessari proprio per la loro riuscita.
Ma a questo equivoco della maggioranza corrisponde un equivoco non
meno grande dell' opposizione.
Nel progetto è previsto (come norma valida solo per le prossime
elezioni del Duemila: ma destinata, secondo il costume italiano del transitorio,
a influenzare anche scelte future) che il presidente della regione sia
eletto a turno unico. Ciò significa che, nello spappolamento del
sistema partitico italiano, che ha lasciato a bocca aperta il mondo intero
nelle ultime elezioni europee, possa diventare presidente di regione anche
un presidente di minoranza che non raggiunga neppure il 40 per cento dei
voti regionali (l'asticella della scommessa Berlusconi-D'Alema...).
Contro questo pericolo di deficit democratico è stata proposta
una correzione. Essa prevede, per il caso che nessuno raggiunga la maggioranza,
un ballottaggio tra i due candidati "e le rispettive liste regionali" che
al primo turno abbiano ottenuto il maggior numero di voti. Di più,
essa prevede che il vincitore veda assegnato alla propria lista regionale
un premio di maggioranza tale da assicurargli il 60 per cento dei seggi
nel Consiglio regionale: la certezza, insomma, della governabilità.
Istintivamente, le opposizioni, a sentir parlare di doppio turno, hanno
- è il caso di dire - visto rosso: trascinate dalla deriva della
loro contrarietà ai progetti elettorali di maggioranza a doppio
turno di collegio. Non si sono accorte però che la correzione proposta
non è un doppio turno di collegio ma è, nella sostanza, il
famoso doppio turno di coalizione, che il 30 giugno 1997 fece il suo ingresso
ufficiale in Bicamerale, come "documento di intenti sulla materia elettorale".
Il sistema attuale di elezione per i Consigli regionali, inventato
dal geniale e rimpianto Pinuccio Tatarella, prevede infatti che i candidati
a presidente siano capilista di una "loro" lista regionale, che è
ben distinta dalle varie liste provinciali di partito collegate. Queste
liste regionali sono invece espressione della coalizione tutta intera.
Si può dire che sono, per diritto elettorale, la stessa coalizione
nella sua veste giuridica, e non solo politica.
La correzione proposta al Senato può essere quindi illustrata
con le stesse parole di quel patto di due anni fa (il tempo passa ed è
facile dimenticare): "Si dovrà garantire che alla coalizione che
al secondo turno ottiene il maggior numero di voti venga comunque assegnata
una percentuale di seggi che assicuri una stabile maggioranza".
Ma se le cose stanno così, come farà l'opposizione a
contrastare il doppio turno di coalizione per l'elezione dei governi regionali?
Aspettiamo con curiosità lo svolgersi degli eventi parlamentari
per vedere se si persevererà diabolicamente nei due grandi equivoci
e si approverà una legge qualunque, sbagliata all'unanimità.
Oppure se il progetto costituzionale - modestamente intitolato alla elezione
diretta del presidente della giunta regionale e all'autonomia statutaria
delle regioni - non segnerà in realtà, come per una prova
generale, un passo decisivo per la Grande Riforma. La sinopia da seguire
per disegnare, fatte salve tutte le differenze, legge elettorale e forma
di governo nazionale.
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