"Consulta, gioco al massacro" 

da La Republica del 23.2.99

di LIANA MILELLA 

ROMA - Pensato, premeditato, discusso e concordato, durissimo. Con un effetto a sorpresa largamente previsto. Nei saloni ovattati del palazzo della Consulta l'affondo del presidente Renato Granata non ha precedenti. Alle 11 in punto suona così: "Si avverte un rischio di delegittimazione che non investe soltanto la Corte, bensì coinvolge, in un perverso gioco al massacro, tutte le maggiori e più significative istituzioni del Paese". I bene informati assicurano che il riferimento è molto preciso: Granata, ex giudice della Cassazione e cattolico di sinistra, si schiera con il presidente della Repubblica che, assieme all' Alta corte, è stato il co-protagonista di critiche aspre e di sospetti di collateralismo quand' era di scena la decisione strategica sull'ammissibilità del referendum. Le voci del palazzo spiegano che Granata ce l'ha con quanti - soprattutto all'interno del Parlamento - avrebbero cercato di "delegittimare" la Corte costituzionale non solo criticandone le decisioni, ma ipotizzando anche una sua improcrastinabile e profonda revisione. 
Due pagine in tutto su 21. Ma lette con un cipiglio e con una tale severità di voce da far capire che il messaggio è tutto lì, in meno di una settantina di righe. Perfino la mimica di Granata, un uomo di 73 anni ben portati dall'aria tranquilla e dal pacioso accento romano, non lascia dubbi: occhiate intolleranti, che si fanno via via più agguerrite a ogni passaggio delicato. E una scelta degli aggettivi volutamente caustici. Del tipo: "La Corte non si intimorisce per i più o meno velati avvertimenti di cui è fatta segno". 
Una sorta di resa dei conti dopo mesi di lamentele continue: le più dure per il referendum, a seguire quelle per la legittimità o meno del 513. E poi la cura Di Bella e il segreto di stato. Per non parlare della fecondazione assistita. E Granata, per l' appunto, non sembra pensarci su troppo. E chiama le critiche con il loro nome: "contumelie", "intettive", "l'acrimonioso e preconcetto rifiuto di valutare le ragioni delle decisioni stesse". Non rifuggendo perfino dall'ironia, perché gli autori delle ramanzine hanno avuto anche il coraggio di ammettere che parlavano sì, ma senza neppure aver letto le sentenze. 
Per antica prassi, il presidente della Consulta può parlare solo una volta all'anno. Per la conferenza stampa di bilancio dei 12 mesi precedenti. Per tutto il resto del tempo, lui e i suoi 14 colleghi debbono tacere. Emettere sentenze e non parlare. Prassi un po' dura in un Paese di polemiche come il nostro. Ma i 15 hanno sempre resistito, anche nel 1998, vero e proprio annus horribilis, almeno a sentire Granata che parla di "acque tempestose più che negli anni precedenti".
Dopo un silenzio così lungo - anche se i bisbiglii di fortissimo malcontento soffiavano giù in piazza del Quirinale - l'autodifesa è stata "giusta e legittima", come dice l'ex presidente Vincenzo Caianiello. Addirittura "ineccepibile" secondo un altro ex, Ettore Gallo. Di sicuro è stata di effetto. E di tale forza che la totale assenza di reazioni politiche, per tutto il pomeriggio, lascia perfino stupiti. Basti pensare che se il presidente Granata avesse fatto le stesse affermazioni a ridosso di sentenze come quelle per il 513 e per il referendum ne sarebbe nato un conflitto istituzionale di proporzioni notevolissime. 
Ma, una volta all'anno, la Consulta ha il diritto di autodifendersi. Di rivendicare la sua autorità e il suo prestigio. E Granata, bruscamente, può dire: se ci mettete in cattiva luce, automaticamente gettate discredito e "delegittimate" tutte le principali istituzioni del Paese. Può gridare al "gioco al massacro". Gli esempi, presi dalla cronaca più recente, sono praticamente obbligati: referendum e 513, ché sono i più eclatanti. Granata legge lentamente: "Con mesi e mesi di anticipo abbiamo sentito affermare che la Corte, ove non avesse ammesso il quesito referendario, avrebbe perpetrato un vero e proprio "colpo di Stato"". E ancora sul 513: "In ossequio a un neoparametro quantitativo abbiamo appreso che, essendo stata approvata in Parlamento a larga maggioranza, lo scrutinio negativo di legittimità costituzionale meditatamente e motivatamente reso dalla Corte avrebbe costituito un'indebita invasione di campo". 
Che si voleva, dunque, dalla Consulta? Che si piegasse ai "consensi e dissensi politici, parlamentari, massmediali"? Granata, com'è ovvio, risponde di no. E sfodera tutto il suo orgoglio di giudice costituzionale ormai da un decennio. "La Corte - scandisce guardandosi in giro acché tutti capiscano - ha continuato, continua e continuerà a svolgere doverosamente il ruolo di garanzia che le compete". Per chi non avesse capito: giù le mani dalla Corte. Da questa, per lo meno. Perché chi ritiene necessario "tagliare le unghie alla Consulta, fa solo male al Paese".