Contro
il crimine poche regole, applicate davvero
da Il Sole 24 ore del 23.1.99
di Raffaele De Mucci
Le rituali cerimonie che hanno contrassegnato l’apertura dell’anno
giudiziario in tutta Italia hanno avuto molto di antico e qualcosa di nuovo.
Nella consueta cornice simbolica delle toghe rosse e degli ermellini, i
procuratori generali presso le diverse Corti di appello hanno fatto il
punto, con dovizia di dati e di commenti, sullo stato della giustizia nel
Paese. Che quest’anno, come sempre, accusa una situazione di grave
deficit sia dal punto di vista delle strutture (organici, attrezzature,
sostegni), sia dal punto di vista dei rendimenti relativi all’amministrazione
della giustizia. L’elemento di novità è costituito
invece da alcune circostanze specifiche da una parte, una sorta di riallineamento
delle forze politiche a favore di orientamenti garantisti, quando ormai
anche la vicenda di tangentopoli sembra stemperarsi nelle ombre della memoria
storica, e dall’altra —quasi per tragico contrasto — la recrudescenza degli
episodi di criminalità “ordinaria” nella vita quotidiana delle città
(e in particolare a Milano), per quanto è accaduto nelle scorse
settimane.
La cosa che più sorprende, scorrendo le statistiche giudiziarie,
non è tanto o solo il numero dei reati, quanto la percentuale di
impunità di cui possono godere. E un reato non punito — quale che
sia la sua gravità —è di fatto un comportamento deviante
tollerato, con effetti di contagio sociale e costi complessivi rilevantissimi
per l’intera collettività. Dicono i giudici: la colpa è nell’inefficienza
delle forze dell’ordine, nella mancanza di deterrenti efficaci a livello
di previsione e di applicazione delle pene, nei sistemi di garanzia procedurale,
la colpa — aggiungono alcuni — è anche degli immigrati che vanno
a infoltire la schiera dei delinquenti locali. Dicono i “politici”
(soprattutto di area governativa, secondo il prevedibile gioco delle parti):
non è con i metodi “a tolleranza zero” — come nell’ormai celebre
“modello Giuliani”, sindaco di New York — che si sconfigge la criminalità
e tanto meno con le campagne di discriminazione razziale; i problemi di
ordine pubblico sono problemi che non possono risolversi solo con la repressione
penale, anzi — aggiungono alcuni (il ministro di Grazia e giustizia Diliberto
per primo) — occorre restituire alla pena il suo significato rieducativo
e abolire pertanto quelle che, come l’ergastolo, vi contraddicono. Naturalmente
queste sono semplificazioni di comodo. Non tutti i magistrati la pensano
come i procuratori generali e nemmeno questi sono completamente d’accordo
fra loro sulla diagnosi e le terapie della “mala giustizia”. Quanto ai
politici, la coerenza non è certo fra le virtù più
coltivate nei loro orticelli.
Queste sono tuttavia semplificazioni assai indicative delle posizioni
che stanno emergendo anche a livello di opinione pubblica. E che, per opposte
ragioni, sono da ritenersi ugualmente sbagliate e fuorvianti: da un lato
il “sociologismo”, comune a molti segmenti di cultura civica, che tende
a ricondurre tutte le forme di devianza sociale alle storture del “sistema”,
finendo per deresponsabilizzare del tutto gli individui; dall’altro la
sindrome reazionaria nella quale domina una concezione “retributiva” della
punizione (tanto hai fatto, tanto subisci). Ma, per un verso, bisogna obiettare
che non esistono norme né diritti effettivi se non garantiti dall’aspettativa
credibile che chi ne viola il contenuto è soggetto a un costo rilevante
per la propria sfera di interessi. Da questo punto di vista, come è
stato opportunamente rilevato da diversi commentatori, la cosiddetta “microcriminalità”
— la si intenda come criminalità minore ovvero, e a maggior ragione,
quando la si intenda (impropriamente) come criminalità diffusa —
non è affatto da relegare ai margini dell’agenda politica e (presumibilmente)
delle iscrizioni al registro delle indagini.
Coinvolgendo la vita e gli interessi di ciascuno di noi, anche un semplice
furto e persino gli atti di vandalismo dei writers costituiscono un
problema
? saliente — di ordine pubblico. E non convince nemmeno il malinteso
senso del solidarismo che diventa spesso la premessa logica di conseguenze
negative, magari anche non intenzionali. È un fatto, al di là
di ogni doverosa considerazione umanitaria, che la criminalità di
immigrazione si aggiunge a quella autoctona, estendendo l’area dei comportamenti
illeciti e del rischio sociale: e questo va tenuto nel conto delle politiche
sociali, quando — per esempio — si concedono sanatorie indiscriminate facendo
del bene a spese degli altri. Per un altro verso, non è nemmeno
concepibile una società “aperta” sottoposta a un regime di militarizzazione
integrale, a meno di non immaginarsi un universo concentrazionario tipico
dei sistemi totalitari.
È un principio di cibernetica: un sistema che non premia e non
punisce, va incontro al suo disfacimento. In biologia si chiama cancro,
in politica configura lo stato di anarchia dell’homo Homini lupus. Come
aveva previsto James Buchan in I limiti della liberté, fra i paradossi
della democrazia c’è anche il “dilemma della punizione” che riguarda
specificamente il problema di quanto si è disposti a pagare in termini
di “imposta sulla libertà” per mantenere un capitale accettabile
di diritti (e per evitare che si converta in un male pubblico). Le norme
punitive dovrebbero essere scelte prima che vi sia la necessità
di applicarle, ma dal momento che la punizione rappresenta sempre un costo
sociale e politico, la maggior parte di esse sono adottate ex post e spesso
ad hoc, secondo una logica di “legislazione” e non di “legge” (per usare
un’espressione di Hayek). La ricetta, per quanto antica e difficile da
praticare, è dunque sempre la stessa sulla quale si fonda il modello
dello Stato di diritto: poche regole, generali e astratte, approvate con
il consenso di tutti, e dotate di adeguati meccanismi di controllo e di
enforcement. E uno Stato che, invece di espandersi a dismisura nelle attività
“produttive”, con sconfinamenti di poteri e sottrazione indebita di autonomia
sociale, possa concentrarsi sulle funzioni di “protezione” e di regolazione
che costituiscono le sue autentiche ragioni di esistenza storica.
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