Riforma del collocamento una finta liberalizzazione

da Il Corriere della sera del 23.3.99

La modesta vicenda dell'abolizione del monopolio pubblico del collocamento, formalmente sancita da una legge del 23 dicembre del 1997, è un esempio di come stiano procedendo a rilento le politiche per l'occupazione in Italia. Come tutti sanno, il collocamento pubblico non funziona, ed è quindi urgente mettere in grado i privati di svolgere quella funzione essenziale che consiste nel far incontrare la domanda e l'offerta di lavoro. 
Purtroppo, come tutte le liberalizzazioni, anche quella del collocamento è stata fatta esclusivamente per la pressione dell'Unione europea (l'Italia è stata addirittura condannata dalla Corte di Giustizia) e quindi senza convinzione e introducendo ogni sorta di vincolo per impedire un vero sviluppo del mercato e della concorrenza. 
Quel che è peggio è che nell'ansia di offrire tutele e garanzie finiamo per scrivere leggi che complicano, anziché semplificare, e sono pressoché inapplicabili. Le norme proclamano principi sacrosanti, ma il mondo reale, sin che può, va per la sua strada, con l'ovvio risultato che alla fine le tutele rimangono sulla carta. 
In base alle nuove norme, dunque, il ministero del Lavoro ha ben 150 giorni di tempo per concedere un'autorizzazione che ha la validità solo triennale (ma chi avvia un'attività se non è certo di poterla proseguire oltre tre anni?). Se il ministero non risponde, la domanda si intende automaticamente respinta (art. 10, comma 4 del d.l. 23/12/97)! Vale cioè il silenzio-rifiuto, anziché il silenzio-assenso. Chi intraprende l'attività di intermediazione deve disporre di «uffici idonei» (cosa vuol dire? In base a quale criterio?), di comprovata esperienza nella materia specifica (il che esclude buona parte degli imprenditori italiani, che non fanno direttamente la gestione del personale) e da appropriati titoli di studio e deve avere almeno due operatori in ogni sede regionale (e chi vuole operare per telefono o via Internet?). 
In detti «uffici idonei» non si può svolgere nessuna altra attività, né formazione, né intermediazione di lavoro interinale. Per queste attività sono necessarie società e strutture separate, quasi che ci fossero i disoccupati che cercano un lavoro a tempo indeterminato, quelli che cercano un lavoro temporaneo, quelli che vogliono riqualificarsi e così via. A quanto consta, le agenzie non possono nemmeno svolgere attività di selezione, ossia dire all'azienda che cerca, poniamo, un elettricista, chi è il più bravo fra quelli che hanno fatto domanda. 
Come si sa, nella nostra cultura, la selezione è classista e fa rima con discriminazione. Ma cosa altro dovrebbero fare le agenzie se non selezionare i candidati? Forse possono solo metterli in fila, in ordine di arrivo, più o meno come fanno gli uffici pubblici, che infatti non servono a nulla. Dulcis in fundo, le agenzie devono dotarsi di un bel dipartimento informatico per comunicare al ministero le singole richieste delle aziende (entro 48 ore!), i curricula dei lavoratori (entro 5 giorni), nonché (entro il quinto giorno di ogni mese) l'esito delle singole ricerche e (trimestralmente) dati di sintesi sull'attività. 
Neanche le banche sono soggette a obblighi informativi tanto pesanti! 
Non si stupiscano dunque al ministero se, a un anno dall'approvazione della legge, non sono pervenute più di tre o quattro domande di autorizzazione. Intanto il mondo va avanti. Le aziende continueranno a trovare i lavoratori come hanno fatto fino adesso: direttamente o attraverso i molti canali di intermediazione che sono sorti in questi anni, con fini più o meno nobili, all'ombra del monopolio e nella più totale incertezza del diritto, per supplire alla increbile inefficienza degli uffici pubblici. 
Rimarranno fuori, come sempre, gli outsider, quelli che non hanno le conoscenze giuste, e soprattutto i giovani del Sud, che non hanno gli strumenti per essere informati delle possibilità di lavoro in altre Regioni. 
Per trovare lavoro ci si continuerà a rivolgere al conoscente altolocato o a «traffichini» senza scrupoli. I giovani continueranno a imparare che in Italia, senza santi in paradiso, nella vita non si combina nulla. 
di GIAMPAOLO GALLI