Il nodo è il patteggiamento 

da Il Messaggero del 23.11.99

di ANTONIO MARINI *
UNO dei princìpi cardine del «giusto processo» è il contraddittorio delle parti, in condizione di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale. Questa regola fondamentale — oggi assurta a rango costituzionale con la riforma dell’articolo 111 della Costituzione — subisce però delle eccezioni, una delle quali è indicata nello stesso articolo, laddove si rinvia alla legge ordinaria il compito di regolare i casi in cui la formazione della prova in contraddittorio non ha luogo «per consenso dell’imputato». Il riferimento al patteggiamento appare evidente. Attraverso il patteggiamento, infatti, l’imputato rinuncia alle garanzie del contraddittorio in cambio di alcuni vantaggi. Il primo è che nel determinare la pena, sulla quale si forma l’accordo con il pubblico ministero, si deve applicare la diminuzione «fino ad un terzo». Allo sconto di pena fa seguito di regola la concessione della sua sospensione condizionale ad opera del giudice. Inoltre, la sentenza che applica la pena non comporta né la condanna al pagamento delle spese processuali, né l’applicazione delle pene accessorie e nelle misure di sicurezza, salvo i casi di confisca obbligatoria. Infine, il reato è estinto se l’imputato non ne commette altro della stessa indole entro il termine di cinque anni (in caso di patteggiamento per delitto) o di due anni (in caso di patteggiamento per contravvenzione). Come si vede gli aspetti premiali in favore dell’imputato sono rilevanti: in particolare, gli è molto gradito sapere in anticipo qual è la quantità della pena che sarà applicata e soprattutto subordinare l’efficacia dell’accordo alla condizione che il giudice conceda la sospensione condizionale della pena. Non a caso i più solerti patteggiatori sono gli arrestati in flagranza di reato, che così riescono subito a riacquistare la libertà. Ma l’aspetto più importante, sotto il profilo che qui ci interessa, è che la sentenza non ha efficacia di giudicato nei giudizi civili o amministrativi. Che significa questo? Significa che mentre all’imputato, per incentivarlo al patteggiamento, la legge accorda tutta una serie di vantaggi, alla vittima del reato non ne concede alcuno. Il giudice, quando accoglie la concorde richiesta dell’imputato e del pubblico ministero non può infatti decidere sulla richiesta di risarcimento del danno derivante dal reato, neppure a titolo di provvisionale. Per di più la vittima del reato è costretta ad iniziare un defatigante processo civile dopo che, comunque, l’imputato è stato condannato in sede penale, con l’aggravante che la sentenza di condanna non ha alcuna efficacia nel giudizio civile. Ognuno vede come questa scelta legislativa sia poco ragionevole, anzi contrasti con il principio di parità delle parti, sul quale si fonda il «giusto processo». Il ruolo marginale riservato alla parte civile nella disciplina del patteggiamento ha sollevato non pochi dubbi di incostituzionalità in ordine alla tutela del diritto del danneggiato ritualmente costituitosi nel giudizio penale. Ma la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul punto, si è limitata a riconoscere che ove il giudice accolga il patteggiamento deve almeno condannare l’imputato a risarcire le spese processuali che la parte civile ha sostenuto (sentenza n. 443 del 1990). Insomma, il patteggiamento non rende giustizia alla persona offesa del reato, che ancora una volta risulta il soggetto maggiormente sacrificato nel processo penale. Evidentemente il legislatore ha temuto che la concessione, anche soltanto di una provvisionale in favore della parte civile, avrebbe ridotto l’aspetto incentivante del patteggiamento che, insieme agli altri procedimenti semplificati, costituisce l’asse portante del sistema accusatorio altrimenti incapace di funzionare. Ma è "giusto" un processo che per poter funzionare deve ricorrere ad un siffatto meccanismo? Cioè ad una contrattazione tra accusa e difesa, dalla quale viene completamente esclusa la vittima del reato? A parte ogni altra considerazione su questo tipo di giustizia negoziale (che negli stessi Usa solleva aspre polemiche e forti critiche), per riequilibrare l’ago della bilancia basterebbe riconoscere espressamente la natura di sentenza di condanna a tutti gli effetti alla pronuncia con la quale il giudice applica la pena concordata tra l’imputato e il pubblico ministero. Conseguentemente la pronuncia della sentenza di patteggiamento dovrebbe essere subordinata ad una chiara ammissione di responsabilità da parte dell’imputato, sulla scia dell’ordinamento statunitense, nel quale il patteggiamento (blea darcaining) presuppone una normale dichiarazione di colpevolezza (guilty plea) che produce i suoi effetti anche in sede civile, dove tale dichiarazione viene considerata come admission, cioè come dichiarazione contro di sé, costituente prova della responsabilità per i fatti cui si riferisce, sia pure non finale né conclusiva, in quanto suscettibile di essere smentita o neutralizzata da prove contrarie. Peraltro, la proposta di condizionare la richiesta di patteggiamento ad una vera e propria confessione se da un lato rende più accettabile presso l’opinione pubblica questo tipo di giustizia, dall’altro esprime l’esigenza di ottenere un’esplicita conferma della fondatezza dell’accusa da parte dell’imputato, nonché l’esigenza che la riduzione della pena sia ancorata ad un dato soggettivo che la giustifichi o che quanto meno ne renda meno stridente la risonanza con i comuni principi in tema di funzione della sanzione penale e dei criteri di commisurazione della stessa.
*Sostituto procuratore generale
presso la Corte d’Appello di Roma