Penitenziari,
cambio della guardia: i progetti del Guardasigilli
da Il Messaggero del 24.4.99
di ANTONELLA STOCCO
ROMA - Il Guardasigilli comunista se la prende con «quella sinistra
che ritiene blasfemo parlare di sicurezza e che ha un atteggiamento schifiltoso
verso le forze dell’ordine: sono lavoratori e la fiducia dei lavoratori
va conquistata». Conquistata, sancita con la creazione di ruoli direttivi
nella polizia penitenziaria, e ribadita ieri mattina al Senato rispondendo
alle interrogazioni sull’avvicendamento alla guida delle carceri e sull’istituzione
dell’ufficio delle garanzie penitenziarie. Le senatrici Salvato e Scopelliti
si sono dichiarate insoddisfatte.
Ministro Diliberto, Alessandro Margara si è detto brutalmente
licenziato dalla guida del dipartimento penitenziario e l’accusa di progettare,
scegliendo come successore Gian Carlo Caselli, carceri più dure.
«Margara non condivideva il mio progetto politico di riforme
che coinvolge l’intero mondo carcerario; non era stato eletto ma scelto
ed io che rispondo al Parlamento e agli elettori ne ho tratto le conclusioni».
Come reagisce all’ipotesi di un Caselli ”rimosso” dalla procura di
Palermo per un posto di seconda fila?
«Quando Giovanni Falcone venne chiamato a Roma al ministero nessuno
ha detto che aveva lasciato la prima linea contro la mafia. Spero che Caselli
accetti la mia offerta, è un uomo di straordinaria sensibilità
e apertura mentale; sarebbe una figura centrale nella gestione del ministero».
Qual è il ruolo dell’ufficio delle garanzie penitenziarie, diretto
dal generale Ragosa e aspramente criticato per via della sezione di intelligence,
della gestione dei pentiti e dei detenuti in 41bis e della guida dei Gom,
i super poliziotti penitenziari?
«Un ruolo di ricognizione e non di gestione. Del resto non si
può permettere che i boss della criminalità organizzata in
carcere tentino di comandare ancora. C’è chi fa i convegni e chi
deve mettere lo Stato in condizione di difendersi. Però non parlerei
di intelligence».
Se non è intelligence cosa è?
«Controllo. Quando sono arrivato ho scoperto che non si sapeva
nulla di ciò che accadeva nelle carceri. Non era accettabile».
E’ possibile però che i detenuti sommino la cacciata di Margara,
ex illuminato giudice di sorveglianza, con la nascita dell’Ugap, la zoppicante
applicazione della misure alternative al carcere e l’inasprimento delle
pene per i reati minori. Un giro di vite e promesse non mantenute».
«Non prometto nulla che non posso mantenere. Mi batto per l’abolizione
dell’ergastolo, al più presto comincerà la sperimentazione
dell’affettività in carcere, la libertà di culto è
una realtà, sono di questi giorni un’intesa tra ministero e conferenza
nazionale del volontariato e una convenzione con la Tim per il lavoro a
San Vittore. Ho chiesto mille magistrati in più, e molti saranno
destinati di tribunali di sorveglianza. Queste sono cose concrete, i primi
passi di una grande riforma che comprende anche un nuovo regolamento penitenziario
molto liberal».
Non le risultano in alcuni istituti sezioni a regime ristretto a discrezione
dei direttori e detenuti a cui il decreto per il carcere duro viene rinnovato
automaticamente, una sorta di 41bis a vita?
«No, no. I decreti per i 41 bis li firmo personalmente e questo,
se è successo, da sei mesi non succede».
In carcere si dice che lei parla di carcere aperto però privilegia
la custodia e usa il pugno duro, come quando ha rimosso direttore e comandante
della casa a custodia attenuata di Rebibbia per l’evasione di tre detenuti
«Evidentemente le negligenze c’erano. E poi senza sicurezza non
si fa trattamento. Chi evade tradisce un patto. Con il buonismo non si
fanno le cose concrete. Ci vuole il realismo politico. Io del resto ho
studiato a Mosca».
E cosa ha imparato a Mosca?
«Ho imparato a stare dalla parte degli sconfitti dalla storia».
E gli sconfitti dalla vita, il popolo delle carceri?
«Non sono sconfitti. C’è sempre la speranza del reinserimento
ma il ministero di Grazia e Giustizia non può fare tutto. Chi esce
di prigione e non trova lavoro rischia di tornare dentro. Questo è
un problema che ci porta dritti al tema della giustizia sociale. Che non
è un’altra storia».
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