Ma la parità con l’accusa passa per il «giusto processo» 

da Il Sole 24 ore del 24.4.99

di Carlo Nordio
Il progetto di legge, ormai in via di approvazione, di estendere agli avvocati una serie di poteri investigativi assimilabili a quelli dei pubblici ministeri, si inserisce con coerenza nella struttura del processo accusatorio, che da un decennio, tra mille difficoltà, modifiche e ripensamenti, stenta ancora ad assumere una forma compiuta.
In origine, la scelta del legislatore era abbastanza chiara: il nuovo processo penale sarebbe stato caratterizzato dalla parità di accusa e difesa, dall’oralità e, si sperava, dall’immediatezza e dalla rapidità. Dire che queste aspettative sono state deluse è un amabile eufemismo: il processo si è inceppato quasi subito, sotto i colpi di una legislazione ondivaga ed emozionale, ora garantista ora forcaiola, vincolata agli episodici fatti di cronaca. Ma è addirittura collassato sotto le picconate della Corte costituzionale che non ne ha soltanto sconvolto i principi ma ha represso ogni tendenza riformatrice espressa dallo stesso Parlamento. L’articolo 513 insegna. Dopo una gestazione dolorosa e una promulgazione sofferta, la nuova norma è stata praticamente annullata dalla Consulta. E ora abbiamo un Codice indovinello, avvolto in un mistero dentro un enigma. Nessuno può seriamente dire cosa sia. Si naviga a vista, sperando nel miracolo.
Il Parlamento, ancora una volta, appare quasi unanime nel riaffermare i diritti della difesa. E si presta a farlo in un modo anche troppo radicale, visto che non è razionalmente sostenibile che Pm e difensore giochino ruoli paritari. La pubblica accusa gioca di iniziativa, dispone della polizia giudiziaria e, non ultimo, deve cercare anche le prove a favore dell’accusato: se lo ritiene innocente deve chiederne il proscioglimento. L’avvocato gioca in difesa, non dispone di collaboratori, non deve cercare le prove contro il suo cliente, né tantomeno chiederne la condanna se lo ritiene colpevole. È quindi illusorio pensare che l’attuale evidente squilibrio tra le parti possa essere risolto ampliando i poteri di indagine degli avvocati. E questo a prescindere dal fatto che, così come il gratuito patrocinio dei non abbienti funziona a metà, ancor meno vi sarà spazio per le gratuite investigazioni. Il cosiddetto strapotere dei pubblici ministeri va ridimensionato riducendo la loro contiguità con i giudici, non aumentando quella con gli avvocati.
Tuttavia la scelta del legislatore è importante perché dimostra che, malgrado le resistenze della parte più conservatrice della magistratura e l’attitudine iconoclasta della Corte costituzionale, esso non si rassegna a ritornare, come sta avvenendo, al vecchio rito inquisitorio. Questa miniriforma, per quanto di scarsa utilità pratica, contribuirà a mantenere in vita le speranze garantiste, di chi, dopo il silenzio calato sulla costituzionalizzazione dell’equo processo, le stava perdendo.
Infatti questo è il problema. L’inserimento dei principi del Codice accusatorio direttamente nella Costituzione è una reale necessità, in quanto quest’ultima, nella sua attuale formulazione, è incompatibile con il processo vigente. Non lo è tanto nella forma, perché nessun articolo si esprime in tal senso, ma lo è nella sostanza, avendo recepito tutti i connotati tipici del vecchio codice Rocco e del vecchio ordinamento giudiziario: a cominciare dall’unità delle carriere dei magistrati per finire con l’obbligatorietà dell’azione penale. Nessuna sorpresa dunque che la Corte continui a demolirlo con interventi progressivi, tenaci e brutali: la Corte fa il suo dovere. Spetta al Parlamento trarne le conseguenze coraggiose, cambiando la Costituzione.