Le
sentenze possono essere criticate, ma non secondo le convenienze di parte
da Il Sole 24 ore del 24.2.99
di Giovanni Pitruzzella
Il presidente della Corte costituzionale, Renato Granata, opportunamente
ha utilizzato la conferenza stampa annuale sull’attività della Corte
per rispondere agli attacchi più violenti che sono stati mossi contro
alcune delle sue più importanti pronunce. Il punto centrale della
"difesa" del presidente Granata si basa sulla distinzione tra la critica
ragionata della decisione e «l’invettiva, lacrimonioso e preconcetto
rifiuto di valutare le ragioni di quelle decisioni».
Bisogna riconoscere che in una democrazia pluralista nessuna istituzione
è sottratta alla critica pubblica, e questo vale anche per le istituzioni
non legate al circuito elettivo-rappresentativo, come è il caso
degli organi giurisdizionali e di quel giudice sui generis che è
il «Giudice delle leggi».
Le sue decisioni certamente non si possono configurare come conseguenze
necessarie di regole dal significato univoco. Piuttosto, consistono in
delicati bilanciamenti di valori e principi confliggenti, e la discrezionalità
si allarga enormemente in occasione di alcune decisioni, come le cosiddette
sentenze additive con le quali la Corte sostanzialmente crea una norma
nuova che non preesisteva al suo intervento. Perciò la critica ragionata
può essere un utile stimolo all’evoluzione della giurisprudenza
costituzionale e può servire ad accentuare la sua sensibilità
nei confronti delle mutevoli esigenze sociali.
Ma negli ultimi anni abbiamo assistito ad attacchi che nulla hanno
a che vedere con la critica legittima.
Si è diffuso un senso di insofferenza nei confronti di tutte
quelle istanze che tendono a imbrigliare il potere politico, fissando allo
stesso dei paletti di confine oltre i quali non è consentito andare.
Dopo i grandi orrori del "secolo breve" le Costituzioni contemporanee hanno
portato alle conseguenze estreme il «governo delle leggi»,
predisponendo gli strumenti — come la Corte costituzionale — per sottoporre
al diritto anche i titolari del potere politico. Solo così infatti
è possibile garantire un effettivo pluralismo di idee, di interessi,
di soggetti sociali ed economici.
Oggi invece serpeggia l’idea che non esistono argini legali alla politica
e che ogni azione e ogni sentenza vada letta secondo i criteri e le convenienze
della polemica partitica contingente. Con la conseguenza che tutto viene
semplificato, stravolgendo i raffinati e complessi iter argomentativi del
Giudice costituzionale. In questo modo si finisce per intaccare la legittimazione
della Corte costituzionale che, non essendo legata al circuito elettorale,
riposa sulla consapevolezza diffusa della sua imparzialità, del
suo essere interprete neutrale della Costituzione al di sopra delle parti
che si confrontano in una democrazia pluralistica.
Di fronte a queste tendenze dobbiamo seriamente interrogarci sull’opportunità
di introdurre l’«opinione dissenziente», cioè di rendere
pubbliche le opinioni dei giudici che sono rimasti in minoranza nel processo
decisionale. La gran parte della dottrina costituzionalistica concorda
sull’utilità di questo istituto, perché il confronto pubblico
delle opinioni stimola la ricerca delle soluzioni più opportune
e favorisce l’equilibrata evoluzione della giurisprudenza costituzionale.
Ma se perdura il clima attuale di critica preconcetta nei confronti
di qualsiasi istituzione, di riconduzione di qualsivoglia opinione alle
esigenze della lotta politica contingente, c’è il serio rischio
che porre sotto i riflettori del pubblico il travaglio intellettuale che
accompagna i giudici costituzionali nelle loro decisioni, finisca per essere
usato per alimentare il clima di polemica permanente che purtroppo sempre
più caratterizza la vita politica del nostro Paese. |