I
rischi di garanzie più forti delle strutture
da Il Sole 24 ore del 24.6.98
diMario Chiavario
Garanzie o efficienza della giustizia? L’impressione che si fosse di
fronte a un’alternativa, stavolta, traspare dalla stessa sentenza della
Corte costituzionale, anche se l’antitesi, come sempre, suona troppo semplicistica.
Fuori discussione, l’ortodossia giuridica della pronuncia. Tra gli
esegeti delle disposizioni su cui si è esercitato il sindacato della
Consulta, persino un magistrato di Procura particolarmente attento alla
salvaguardia delle ragioni della pubblica accusa aveva riconosciuto che,
«a rigor di garanzia», il calcolo dei tempi per lo snodo e
poi per la decisione sulle richieste di riesame dei provvedimenti coercitivi
«dovrebbe essere ancorato alla presentazione dell’impugnazione».
Lo stesso commentatore (ma non era il solo) metteva peraltro l’accento
sui rischi — imputabili più che altro al complessivo sistema dei
rapporti tra il meccanismo dei controlli sui suddetti provvedimenti e quello
del deposito degli atti di indagine — che anche con un’interpretazione
meno rigorosa del dettato della legge si sarebbero configurati, di obiettiva
impossibilità di osservanza del termine perentorio stabilito per
la trasmissione degli atti al tribunale (e pertanto di inopinate scarcerazioni
di soggetti, per quanto pericolosi).
Adesso, quei rischi parrebbero essere aumentati. Né la Corte
costituzionale manca di avvertirlo, quando, dopo aver affermato con forza
la preminenza delle esigenze di garanzia su ogni altra considerazione,
indica purtuttavia al legislatore — «se riterrà che dalla
norma, come qui interpretata, discendano eccessive difficoltà organizzative
per gli uffici» - la via delle ulteriori «modifiche della disciplina
in esame». Che poi qualche dubbio più consistente sia aleggiato
pure nel dibattito interno all’alto consesso è supposizione forse
non troppo peregrina. Due dati sembrano abbastanza significativi: in luogo
di una soluzione assolutamente tranchante, come sarebbe stata una declaratoria
d’illegittimità delle norme sub iudice, si è piuttosto scelta
quella, più morbida, della sentenza interpretativa (che non incide
autoritativamente sulla norma impugnata, ma fa piuttosto appello a un’adesione
da parte dei giudici comuni e lascia maggior tempo per accomodamenti legislativi);
inoltre — caso non molto frequente — il giudice chiamato a svolgere la
relazione iniziale sulla causa di costituzionalità non è
poi stato quello incaricato di redigere il testo finale della decisione.
Ma non indugiamo su dietrologie, anche perché è tutt’altro
che scontato che, nei casi “normali” di coincidenza tra il nome del “relatore”
e quello del “redattore” il collegio si sia sempre semplicemente adeguato
alle indicazioni di costui. D’altro canto, nella specie, la scelta interpretativa
adottata appare comunque molto netta.
Più che andar dietro a supposizioni o piangere sul latte versato,
sarebbe dunque necessario che gli uffici giudiziari e di procura venissero
dotati e si attrezzassero rapidamente degli strumenti necessari per non
essere sempre più impari alle nuove necessità (il che, probabilmente,
non vuol nemmeno implicare forti aumenti di spesa, ma piuttosto maggiore
razionalità di impiego di risorse e soprattutto maggiore adeguatezza
di preparazione del personale ausiliario). Ma è altrettanto evidente
che abbiamo qui l’ennesima occasione per riflettere su più ampi
problemi di bilanciamento di interessi da tutelare.
Certo, è fondamentale che le decisioni giudiziarie — e in particolare
quelle sulle impugnazioni che contestano la legittimità formale
o sostanziale di misure cautelari — non possano impunemente venire emesse
al di là di termini ragionevoli; ed è altrettanto giusto
che non possano essere le pesantezze burocratiche a ritardare le risposte
alle domande di libertà di una persona. Detto questo, è però
importante arginare al più presto la sensazione che il sistema vada
sempre più verso impunità o scarcerazioni “guadagnate” sfruttando
un cattivo coordinamento fra gli istituti di garanzia (e di umanizzazione
del processo e delle sanzioni) e il contesto in cui vengono a operare.
È sintomatico l’allarme suscitato dai “vuoti” di tutela compensativa
di istanze di difesa sociale, a fronte delle nuove (e in sé non
censurabili) regole sull’esecuzione delle pene brevi, introdotte dalla
“legge Simeone”. E potrebbe sortire analogo effetto il progetto sulla
non punibilità dei reati di scarsa offensività concreta (a
sua volta, in sé e per sé rispondente a giustificate scelte
di politica penale) se venisse approvato senza quei correttivi e quelle
integrazioni, la cui mancanza rischia di farne una sorta di licenza per
episodi come lo scippo delle cinquantamila lire alla vecchietta.
|