La risorsa estrema delle riforme

da La Stampa del 24.7.98

Buona parte della classe politica sta guardando al referendum sull’abrogazione della quota proporzionale come a un inciampo fastidioso. L’altra parte lo considera una minaccia pericolosa. Il governo lo guarda come l’unica mina su cui potrebbe saltare.
Il fastidio e la minaccia vengono intensificati dalla sorpresa, cioè dal fatto che fino a non troppe settimane fa sembrava che la raccolta delle firme, cominciata in sordina, dimostrasse un interesse molto tiepido da parte dei cittadini. Ora invece con il referendum si dovrà fare i conti.
Questa nuova avventura referendaria vede per protagonisti uomini politici dalle speranze deluse, come Mario Segni e Achille Occhetto, outsider della politica come Luigi Abete, liberali spregiudicati e non facilmente omologabili alle logiche di partito come Antonio Martino, con l’aggiunta del personaggio più ingombrante che c’è nella realtà politica italiana, Antonio Di Pietro.
A guardarla con occhio scettico, si tratta di una iniziativa anacronistica. Con i personaggi sbagliati, con i tempi imprecisi. Eppure, anche se si dovrà aspettare il vaglio della Corte Costituzionale, appare chiaro sin d’ora che il referendum sulla proporzionale è un elemento di dinamismo, in quanto è destinato a riaprire giochi politici che sembravano saldamente chiusi.
Il progetto riformista si è arenato nelle secche della Bicamerale, dopo avere dato forma a un progetto di basso profilo. Nell’opinione pubblica si è diffuso un senso di rassegnazione, l’idea che per ciò che riguarda le riforme del sistema politico-istituzionale si fosse raggiunto il massimo, che coincide col minimo, possibile: dopodiché, i partiti si sono riappropriati dello scettro che con i referendum sulla preferenza unica e sulla proporzionale era temporaneamente passato al popolo.
Che adesso quasi settecentomila italiani abbiano deciso di firmare per il nuovo referendum, superando con uno slancio inaspettato le debolezze organizzative e le non grandi aspettative con cui l’iniziativa è stata accolta, dimostra che dentro la nostra società circola ancora una volontà se non altro ostinata. Si potrà giudicare ingenuo affidare ancora residue speranze di cambiamento a una modificazione delle regole: l’esperienza ha mostrato che la capacità di ricatto di alcune parti politiche è insensibile alle leggi elettorali; il Parlamento prolifera di gruppi e sigle politiche; la struttura bipolare è resa incerta dalla persistenza della Lega, dall’irriducibilità di Rifondazione comunista, dall’artificialità dei Poli, dai rigurgiti neocentristi. Insomma, dalla ventata referendaria a oggi si sono visti esiti deludenti o comunque molto contraddittori.
Allora che cos’è il referendum Segni-Di Pietro, un saldo di fine stagione? Sarebbe così se il sistema politico avesse saputo completare la riforma costituzionale, e se nello stesso tempo avesse riformulato una legge elettorale coerente con lo schema bipolare. Come si è visto, il ridisegno delle istituzioni era di qualità molto mediocre, la scelta semipresidenzialista era avvenuta per un incidente di percorso, e la formula elettorale sottostante, basata sul doppio turno di coalizione, era probabilmente peggiorativa del Mattarellum.
Dunque è la cattiva prestazione dei partiti e degli schieramenti a ridare legittimità allo strumento referendario. Il quale oggi rappresenta la risorsa estrema per riavviare dal basso il processo riformatore: non tanto attraverso la via del compromesso fra le parti politiche ma come possibile choc a cui la classe politica sarà obbligata a offrire una risposta.
C’è comunque una differenza rilevante rispetto ai primi Anni Novanta. Allora i referendum erano, o apparivano, il nuovo contro il vecchio, la società civile coalizzata contro la società politica, che subiva senza reagire. Oggi, proprio perché rappresenta un inciampo o una minaccia, il referendum verrà giocato anche dai partiti, cioè diventerà oggetto di lotta politica. Prima i partiti proveranno a sterilizzarlo; se non ci riusciranno, ne faranno l’oggetto di una competizione dalle prospettive per ora imprevedibili.
A questi aspetti va aggiunta la forte personalizzazione che inevitabilmente il referendum incorpora. Il ruolo di Di Pietro rischia infatti di tramutare la consultazione referendaria in un plebiscito fra opposti: fra garantismo e giustizialismo, fra partitocrazia e populismo, fra politica e antipolitica.  Sarebbe un errore disastroso configurare il referendum come un giudizio di Dio su Di Pietro, rappresentante della giustizia di popolo, su Berlusconi, in quanto nemico delle procure e di Di Pietro, o su D’Alema per la sua inclinazione partitocratica. Conviene guardare al referendum esattamente per quello che è, vale a dire l’ultima carta di un processo riformatore che altrimenti rischia di sfumare oltre i confini del millennio.
L’ultima chance di terminare la razionalizzazione del sistema politico. Senza sagomarlo sulle figure e sui problemi dei protagonisti politici di questa fase. Senza farne una guerra di religione. E magari chiedendo ai partiti, grandi e piccoli, uno sforzo di fantasia: affinché non facciano battaglie sante contro il referendum, che nessuno capirebbe, e perché non lo usino come arma politica l’un contro l’altro, o contro la stabilità del governo, aprendo conflitti che i cittadini sarebbero davvero grati di vedersi risparmiare.
Edmondo Berselli